mercoledì 16 settembre 2009

14. Gli italiani

Nel 1946 tutti i cittadini maggiorenni, donne comprese (che votano per la prima volta), sono chiamati a scegliere tra Monarchia e Repubblica. Vincono i repubblicani e il re Umberto II deve prendere la via dell’esilio. Si procede allora all’elezione di un’Assemblea Costituente (2.6.1946), alla quale viene affidato il compito di preparare una nuova Costituzione, che entrerà in vigore il primo gennaio 1948. Essa riconosce la sovranità popolare e i diritti democratici dei cittadini: il diritto al lavoro e alla salute, il diritto di eleggere liberamente i propri rappresentati con suffragio universale, il diritto di uguaglianza di fronte alla legge, i diritti di libertà (di pensiero, di parola, di associazione, di iniziativa e di fede religiosa); riconosce altresì la necessità di rimuovere la povertà e l’ignoranza, allo scopo di rendere effettivi i suddetti diritti.
Intanto, dalle consultazioni elettorali del 1946 emergono le tre principali forze politiche del paese, che sono: la DC, con il 35,2% di preferenze, il PSI col 20,7%, il PCI col 19%. Il democristiano Alcide De Gasperi forma un governo di coalizione, insieme alle sinistre, che però sono viste come fumo negli occhi sia dagli americani, sia dal mondo imprenditoriale italiano, sia dalla chiesa. In questo momento a dettare legge nell’Europa occidentale sono gli Stati Uniti, i quali sono in grado di offrire consistenti aiuti economici ai paesi disposti ad accettare la loro egemonia, ma che ancora non considerano l’Italia un interlocutore importante. De Gasperi invece punta deciso su di loro e fa di tutto per apparire ai loro occhi un alleato affidabile e meritare la loro stima. Alla fine del 1946 gli americani si convincono che è nel loro interesse evitare che l’Italia finisca nelle mani dei comunisti e, negli anni seguenti, fanno in modo che essa benefici del piano Marshall. De Gasperi ricambia estromettendo i comunisti (insieme ai socialisti) dal governo (maggio 1947) e avviando una politica economica di stampo liberista. Si inaugura così quel Centrismo che durerà fino al 1958.
Alla fine della guerra, gli Usa non sono disposti a consentire che in Italia i comunisti vadano al potere. In un documento segreto, datato 5.3.1948 e reso pubblico nel 1994, si dice che, in caso di affermazione del comunismo, gli americani sarebbero ricorsi alla guerriglia e alla falsificazione del voto (CANFORA 2006: 280). Alle elezioni del 18.4.1948 gli italiani “sono chiamati a votare non tanto su programmi politici di segno riformatore o conservatore, ma per il comunismo o l’anticomunismo” (BARBAGALLO 1994: 126). Col 48,5% dei consensi, la Democrazia Cristiana, si afferma come primo partito politico e si appresta a governare il paese, mentre nel Sud essa attira l’attenzione della mafia, che comincia ad infiltrarvisi, specie attraverso la potente organizzazione cattolica dei contadini, la “Coltivatori diretti”. Le forze anticomuniste possono tirare un respiro di sollievo e l’Italia, ormai schierata apertamente con gli americani, può ben considerarsi non più “cobelligerante”, ma “alleata” a tutti gli effetti, anche se di fatto essa interpreta un ruolo subalterno agli Stati Uniti. La fedeltà a tale ruolo, che verrà eretta a strategia negli anni a venire, finirà per “perpetuare una condizione di minorità del paese” (ROMERO 1994: 274). Se per gli Stati Uniti l’Italia è uno dei tanti pianeti che gli girano intorno, essi costituiscono per l’Italia il sole, il punto di riferimento cruciale per tutte le loro più importanti iniziative politiche.
Sempre nel 1948, la crescita del partito comunista che, con circa il 24% dei suffragi, si colloca al secondo posto, genera nel paese una situazione inquietante, dal momento che esso è portatore di una concezione laica e materialistica del mondo, che mal si concilia con la dominante cultura cattolica. La paura del comunismo è tale da indurre Pio XII (1939-58) a superare la tradizionale avversione della chiesa nei confronti del capitalismo e ad avvicinarsi agli Stati Uniti, mentre i parroci predicano ai loro fedeli l’inconciliabilità dei valori del comunismo con quelli del cristianesimo, finché, un bel giorno (29 giugno 1949), i fedeli possono leggere un avviso sacro affisso sui portoni di tutte le chiese della nazione, che recita pressappoco così: “Chi ha votato PCI e non si pente resta in peccato mortale ed è destinato all’inferno”. È la scomunica. Essa verrà confermata l’anno seguente con un decreto del Santo Uffizio.
Per evitare anatemi, ma soprattutto per una temuta revoca della licenza, alcune edicole non vendono più il quotidiano comunista, L’Unità, che è costretto a mobilitare gli iscritti per la vendita abusiva nelle strade: alcuni lo acquistano, ma poi lo nascondono sotto il braccio, rivoltato per non farsi notare; altri lo nascondono perfino in famiglia per non aver liti con le proprie mogli, sorelle, madri e figlie, che sono le più esposte ai sensi di colpa suscitati dalla crociata della chiesa. Nella sua dura lotta contro il comunismo Pio XII non perderà occasione per schierarsi accanto, e benedire, qualsiasi iniziativa in grado di opporsi in qualche modo a quell’odioso movimento: tale sarà il Patto Atlantico, o NATO (1949), tale sarà il riarmo della Germania (1955) e tale sarà l’istituzione Gladio, almeno a partire dal 1956.

14.1. Pio XII
Non condanna l’invasione tedesca della Polonia, né l’aggressione dell’Etiopia da parte di Mussolini, né l’olocausto degli Ebrei. Nemmeno a guerra finita pronuncia parole di biasimo nei confronti di Hitler, Himmler e di altri cattolici gerarchi nazisti. Rifiuta di ricevere il leader democratico italiano Alcide De Gasperi, mentre non esita a scomunicare tutti i comunisti del mondo (1949). “Diritti dell’uomo e democrazia sono realtà rimaste fondamentalmente estranei a questo papa” (KÜNG 1995: 285). Probabilmente, con lui è stato toccato il punto più lontano dal Regno di Dio.

Intanto in Italia, ad onta di quanto sancito dalla Costituzione, continua ad operare la vecchia legislazione fascista, e la democrazia è solo teorica. Nel 1953 De Gasperi tenta di garantire l’egemonia democristiana varando una legge che premia la lista in grado di superare il 50% dei consensi, la cosiddetta “legge truffa”, che però non scatta perché nessuna coalizione riesce a superare quel limite. L’anno seguente il centrismo viene abbandonato e inizia l’apertura a sinistra, proprio mentre un’irresistibile ripresa economica sta modificando la fisionomia del paese. Intanto l’Italia insiste nella sua politica di fedele alleato americano e, nel quadro di una politica di riarmo tesa a contrastare la potenza sovietica, concede agli Stati Uniti di costruire basi militari nella penisola (1954) e di installarvi le prime bombe atomiche, mentre la Cia ha modo di finanziare e organizzare (1951-56) una rete segreta, la Gladio, in funzione anticomunista.

14.2. Il papato da Giovanni XXIII a Giovanni Paolo II
Una ventata di novità investe la chiesa dopo l’elezione al soglio pontificio dell’anziano cardinale Angelo Roncalli, che prende il nome di Giovanni XXIII (1958-63). È persona buona, mite, umile, semplice e alla mano, e, allo stesso tempo, devota, pia e propositiva. Va affermando che “capo della Chiesa è Cristo, non il papa” e che “la Chiesa è di tutti, ma soprattutto dei poveri”. Molti temono che questo papa favorirà l’avanzata del comunismo, ma sperano che non ne avrà il tempo. A Giovanni XXIII vanno ascritti almeno due meriti di grande rilievo. Il primo è la convocazione del Secondo Concilio Vaticano (1959), che introduce importanti aperture della chiesa, specie in direzione dell’ecumenismo e di una maggiore partecipazione dei fedeli in tutta la sfera del sacro. Riconoscendo pari dignità alle diverse concezioni religiose, lo spirito ecumenico assume il significato politico di un anti-nazionalismo o, se preferiamo, di un mondialismo, dove ogni popolo, ogni gruppo, ogni famiglia vengono accreditati di pari dignità.
Il secondo grande merito di Giovanni XXIII consiste nelle aperture alle libertà e al valore della persona, insieme all’auspicio di una pace mondiale fondata sulla giustizia, secondo quanto espresso nell’enciclica Pacem in terris (1963), dove si legge: “La dignità di persona, propria di ogni essere umano, esige che esso operi consapevolmente e liberamente” (17). Se la persona è libera, essa non può essere moralmente obbligata da un altro uomo, ma è tenuta a sottomettersi soltanto alla propria coscienza. Siamo al completamento del quadro, perché quello che l’ecumenismo riferisce al contesto sociale, la Pacem in terris riferisce alla singola persona.
Quanta distanza fra questa immagine e quella dell’uomo-gregge tanto cara ai pontefici precedenti! Il Vaticano II non solo conferma il principio, secondo il quale ciascuno “è tenuto ad obbedire soltanto alla propria coscienza” (Dignitatis humanae, 11), ma stabilisce anche il seguente principio, che possiamo definire di partecipazione democratica: tutti i cittadini “hanno il diritto e il dovere […] di contribuire secondo le loro capacità al progresso della loro propria comunità” (Gaudium ed Spes, 65). Giovanni XXIII è il papa che ha reso possibile il dialogo fra la chiesa e i partiti di sinistra e che, più d’ogni altro suo predecessore e successore, si è avvicinato al modello di democrazia diretta. È pertanto condivisibile il giudizio positivo espresso da Guido Verucci su questo pontificato, che “è stato certamente uno dei più importanti, se non il più importante dell’epoca contemporanea” (1999: 82). All’interno della chiesa, invece, dalle frange più tradizionaliste, qualcuno esclama: “Ci vorranno cinquant’anni per rimediare ai guasti che ha fatto alla Chiesa nei cinque anni del suo pontificato”.
Purtroppo, la grandezza di un Giovanni XXIII resterà una parentesi felice nella storia della chiesa e non sarà più eguagliata. Il successore, Paolo VI (1963-78), è di tutt’altra pasta. Dotato di una personalità aristocratica e austera, manifesta un elevato concetto del proprio ruolo (usa sempre il plurale maiestatis, insieme alla tiara e alla sedia gestatoria) e “si oppone a qualsiasi iniziativa che possa intaccare la tradizione dogmatica e il primato pontificio” (RENDINA 1996: 664). Paolo VI non riesce a dare seguito al tentativo di svolta operato da papa Roncalli e dal Vaticano II e, ondeggiando fra aperture e chiusure, finisce per irrigidirsi in posizioni antiquate, che non soddisfano nessuno e sono alla base di una crisi profonda, che serpeggia all’interno della chiesa e che induce molti sacerdoti ad abbandonare la veste.
Nel corso della sua vita tormentata, Paolo VI ripropone la tesi secondo la quale il papa deve giustificarsi soltanto dinanzi a Dio, prospettando un assolutismo di potere, che ormai è anacronistico e viene contestato dalla commissione teologica che, per fortuna, riesce a convincere il pontefice a ritirare la sua affermazione. Il risultato è che il papa non deve sottostare solo a Dio, ma anche alla rivelazione, alle definizioni dei concili e ad altre cose ancora. Incapace anche di concepire la libertà di coscienza personale, Paolo VI finisce col condannare ogni pratica finalizzata al controllo delle nascite (Humanae vitae, 1968), quando ormai queste pratiche sono largamente diffuse e accettate anche dalla coscienza di molti cristiani. Sul versante sociale, Paolo VI aggiunge a quella del comunismo anche la condanna del capitalismo, il cui fine essenziale è il profitto e l’accumulazione illimitata di beni (Populorum progressio, 1967).
A Paolo VI succede Albino Luciani, che prende il nome di Giovanni Paolo I (1978). Proviene da un’umile famiglia (il padre è un operaio con idee socialiste) ed è una persona semplice ed estranea ai giochi di potere, tanto a livello politico che in campo economico. I suoi principali interessi sono di tipo religioso, ed egli li cura da autentico cristiano. Qualcuno pensa che possa rivelare qualche sorpresa, in termini di apertura alle istanze del proletariato e al comunismo. Ma non c’è tempo per verificare: Albino Lucani muore, misteriosamente, dopo appena 33 giorni di pontificato.
Il papa che viene eletto nel 1978, Karol Wojtyla, è un polacco, è giovane, è dotato di forte personalità e di intensa comunicativa, su di lui si appuntano tante speranze. Prende il nome di Giovanni Paolo II (1978-2005). Durante la campagna per il referendum sull’aborto (1981), rivela chiare doti di combattività e tenacia. Viene accusato d’interferenze in violazione del Concordato e appare subito chiaro che il suo sarà “un papato fortemente politico” (RENDINA 1996: 675). Nonostante i numerosi viaggi e gli incontri con esponenti di altre religioni, e benché lo stesso papa si esprima a favore di un dialogo fra le grandi religioni monoteiste (Tertio millennio adveniente, 1994), lo spirito ecumenico non fa sostanziali passi avanti e rimane invincibile la concezione “nazionalistica” della superiorità del cattolicesimo nei confronti di tutte le altre confessioni. Sul versante politico generale, il pontefice polacco conserva l’avversione per il comunismo dei suoi predecessori e mantiene le distanze dal capitalismo, senza fornire un modello di governo alternativo concreto (Laborem exercens, 1981; Centesimus annus, 1991).

Dopo la caduta del fascismo, dunque, l’Italia è governata da una pluralità di partiti politici, liberamente eletti dai cittadini con suffragio universale e aventi la funzione di rappresentare la volontà e gli interessi generali degli elettori. Nell’accettare il piano Marshall e nell’accettare, quindi, di entrare nella sfera d’influenza degli Stati Uniti, i governi italiani operano una precisa scelta che li pone in netta antitesi col modello sovietico e che li autorizza a descrivere il PCI come uno spauracchio o come il nemico numero uno, da abbattere a tutti i costi o, quanto meno, da tenere assolutamente lontano dal potere esecutivo. Così, contro il pericolo comunista, il governo italiano permette l’istituzione “Gladio”, un’organizzazione clandestina paramilitare, operante nell’ambito dei servizi segreti italiani e della CIA (1956), allo scopo dichiarato di preparare una resistenza in caso di invasione del territorio nazionale da parte di forze comuniste, aderenti al Patto di Varsavia. Nello stesso anno si apre la stagione del cosiddetto terrorismo nero (1956-74), orchestrato dalla Cia allo scopo di insediare in Italia una dittatura militare in funzione anticomunista, che culmina in un tentativo di colpo di Stato perpetrato da Junio Valerio Borghese (1970) e in un tentativo di «golpe bianco» ad opera di Edgardo Sogno (1974), entrambi falliti.
Intanto, nel corso degli anni Sessanta, l’Italia ha ormai abbracciato lo spirito capitalistico ed è in piena espansione economica. I principali gruppi industriali e finanziari sono saldamente controllati da poche famiglie (Agnelli, Falck, Pesenti, Bassetti, Marzotto, Zanussi, Rizzoli, Mondadori, Moratti, Bertolli, Motta, e altre), mentre nuove famiglie si affacciano nel mondo dell’imprenditoria italiana: sono i Tanzi, i Riva, i Lucchini, i Ferrero, i Merloni, i Del Vecchio, i Ligresti, i Danieli, i Ferruzzi, i Marcegaglia, e via dicendo. Alcuni di essi, come i Berlusconi e i Benetton, creeranno degli autentici imperi industriali e finanziari partendo praticamente dal nulla. Si trasformano anche i costumi: le abitazioni tendono ad essere sempre più spaziose e confortevoli, e cominciano a diffondersi gli impianti di riscaldamento, i servizi igienici, radio, telefono, televisore, autorimesse. Ciò contribuisce a diffondere una sensazione di progresso e di benessere e a creare le condizioni favorevoli ad un cambiamento anche sul piano culturale e sociale, che si traduce, nel decennio successivo, in una serie di novità: l’introduzione del diritto di divorzio (1970), la liceità di propagandare e vendere anticoncezionali (sentenza della Corte Costituzionale del 1971), scompare la figura del capofamiglia e l’istituto della patria potestà, mentre i coniugi assumono parità di diritti e doveri nei confronti della prole (1975), l’aborto non è più reato (1978), si tutela il diritto alla procreazione cosciente e responsabile (1978).
Nello stesso periodo in cui si afferma il capitalismo, l’Italia è amministrata da governi di centro-sinistra, cui partecipano i socialisti, e non mancano coloro che sono favorevoli ad un’intesa anche coi comunisti (“compromesso storico”). L’elezione di uno di questi, Aldo Moro, alla segreteria democristiana (1969) rappresenta un elemento di turbamento e preoccupazione per le forze di destra, che si sentono minacciate nei loro interessi da un pericolo comunista, che è particolarmente temuto dagli Stati Uniti. Intanto l’Italia è colpita da quella che verrà ricordata come “strategia della tensione” (attentati, stragi, un tentativo di colpo di Stato), che potremmo anche chiamare terrorismo e che è verosimilmente orientata a suscitare nella popolazione il desiderio di abbandonare la politica orientata a sinistra e di affidarsi ad un governo forte, in grado di ristabilire l’ordine e la sicurezza sociale. La minaccia comunista raggiunge il massimo grado quando, nelle elezioni del 1976, il PCI ottiene il 34,4% delle preferenze e si comincia a temere un suo possibile sorpasso della democrazia cristiana. In più, sotto il tormentato pontificato di Paolo VI, molti cattolici, sacerdoti compresi, abbracciano le teorie marxiste. L’assassinio di Moro, insieme all’elezione al soglio pontificio di Giovanni Paolo II (1978), un papa decisamente anticomunista, consentono di scongiurare il pericolo funesto.
Nel 1983 il PCI ottiene il 29,9% e si avvia verso un lento declino. Anche la DC registra un calo di consensi, mentre mostra una tendenza alla crescita il PSI, in seno al quale emerge la figura di Bettino Craxi. Intanto, nel corso degli anni Ottanta, quella che è sempre esistita, come fatto di costume, vale a dire la corruzione politica, si sviluppa come un vero e proprio sistema, che tutto pervade e di cui nessuno può fare a meno. In cambio dei favori che ricevono, gli imprenditori finanziano i partiti al governo, mentre i politici ricambiano con una legislazione compiacente. Questo sistema di corruzione, che finisce per coinvolgere praticamente “tutti i più grandi gruppi industriali, pubblici e privati” (BRUNO, SEGRETO 1996: 666), si rivela duraturo, anche perché può contare sulla complicità del partito comunista, che anch’esso riceve sovvenzioni da parte dell’URSS. Dopo la crisi del comunismo sovietico (1989), la politica italiana si sposta a Destra e in direzione liberista e si caratterizza per un alleggerimento del carico tributario sulle fasce più facoltose e per una tolleranza nei confronti dell’evasione fiscale, in modo siffatto che i ricchi diventano sempre più ricchi, mentre la povertà aumenta (PACI 1996: 761). In queste condizioni, si ampliano gli spazi per i traffici illeciti e la corruzione.

13. Israele

Dopo avere invano,in più occasioni (1945-7) cercato di contrastare l’immigrazione clandestina e di arrestare l’azione terroristica ebraica, Londra finisce per abbandonare la questione palestinese alla competenza dell’ONU (1947), che divide la Palestina in uno Stato ebraico di 14.000 Kmq per una popolazione di 963.000 abitanti, di cui 500.000 Ebrei, uno Stato arabo, di 11.500 Kmq per una popolazione di 814.000 abitanti, di cui 10.000 Ebrei, e uno Stato internazionale (Gerusalemme). La delibera dell’ONU è ritenuta ingiusta dagli arabi, che si vedono defraudati di una terra, che è loro da secoli. Gli ebrei, invece, accettano e, senza indugio, iniziano l’attuazione del cosiddetto “Piano D”, che persegue due obiettivi: il primo consiste nell’impadronirsi di tutte le installazioni civili e militari abbandonate dagli inglesi, il secondo nel ripulire il territorio loro assegnato dall’ONU del maggior numero possibile di arabi (PAPPE 2005: 159). Questi ultimi cercano di opporsi, ma la loro inferiorità militare è netta e, nel giro di un semestre, un terzo di loro è già stato cacciato. Inizia così il dramma dei profughi palestinesi.
Dopo sei mesi di “guerra civile”, in coincidenza con la cessazione del mandato inglese, nonostante la contrarietà del mondo arabo e grazie all’appoggio di alcuni paesi occidentali, Ben Gurion proclama la nascita dello Stato di Israele (14.5.1948), che viene subito riconosciuto dagli Stati Uniti. Al momento Israele conta circa 800 mila abitanti, il 7% dei quali vive all’interno di 149 kibbutz di dimensioni variabili, da un centinaio di persone a oltre due mila, che sono stati fondati in prevalenza da ebrei provenienti dall’URSS e imbevuti di idee socialiste. Caratteristica di queste comunità è il rifiuto della proprietà privata e un’amministrazione di tipo democratico-diretto, centrata sul valore dell’individuo più che della famiglia e del gruppo.

13.1. I kibbutzim in Palestina
La storia del kibbutz (che in ebraico significa «gruppo») inizia nel 1910, con i primi insediamenti ebraici in Palestina e si iscrive all’interno del movimento sionista, che vuole riportare il popolo ebraico nella sua patria storica. Nelle teste dei fondatori del k. c’è l’idea di costituire comunità autosufficienti e autarchiche, allo scopo di emancipare la donna e realizzare la parità fra i sessi (Bettelheim 1977: 35). Nel 1967 la popolazione complessiva dei kibbutzim ammonta a 87 mila. Nel 1991 i kibbutzim comprendono 270 comunità, ciascuna delle quali comprende in media 476 persone insediate in un’area di circa 550 ettari in media, per un totale di 129 mila membri.
All’interno del kibbutz non esiste proprietà privata, ma tutto appartiene a tutti, non circola denaro convenzionale e le transazioni economiche sono registrate elettronicamente. Il governo della comunità è di tipo democratico-partecipativo. Insomma, siamo di fronte a minuscole popolazioni di tipo tribale, dunque di tipo arcaico, inserito in un contesto fra i più civili e tecnologici del pianeta, il che fa del k. un’autentica novità sul piano sociale ed educativo, e i risultati sembrano finora incoraggianti. Basti pensare che, pur comprendendo il 2,5% della popolazione totale di Israele, i kibbutzim forniscono il 6% della produzione industriale e un terzo della produzione agricola (MARON 1994: 7-8).
13.1.1. Organizzazione sociale
Le ragioni di questa straordinaria e imprevedibile performance vanno ricercate nella particolare organizzazione familiare e sociale di queste comunità, dove la socializzazione e la cura del bambino non sono affidate in modo preponderante o esclusivo alla famiglia biologica, poiché vi contribuiscono in modo sostanziale i coetanei, i compagni di lavoro, i comitati e l’assemblea generale. In definitiva, i k. si sono assunta la maggior parte delle funzioni della famiglia e hanno avocato a sé la responsabilità della cura fisica e dell’allevamento dei bambini, riducendo in tal modo gli obblighi e i legami dei genitori. “Fondamentalmente i bambini appartengono alla comunità nel suo insieme” (SARACENO 1975: 238).
Nel k. i bambini vengono solitamente allattati dalla madre per i primi sei mesi, dopo di che vengono svezzati e affidati alla comunità, così che la madre è libera di riprendere il lavoro. “Questa situazione favorisce l’indipendenza nel bambino del kibbutz, dato che impara presto ad interagire con una pluralità di persone” (Bettelheim 1977: 122). Il k. investe una straordinaria quantità di risorse nell’educazione dei bambini, col risultato che i futuri cittadini si sviluppano “in condizioni molto più favorevoli della maggioranza dei nostri bambini del ceto medio, per non parlare di quelli disagiati” (Bettelheim 1977: 118). Economicamente ed emotivamente i figli dipendono meno dalla famiglia che dalla comunità e questo, secondo Bruno Bettelheim, si rivela vantaggioso per lo sviluppo psicofisico dei bambini e per il loro inserimento nella vita sociale. In effetti, il bambino nel k. non ha nulla da temere se i suoi genitori si separano, si ammalano, muoiono e via dicendo: egli sa che è la comunità a prendersi cura di lui, e questo lo rassicura.
In definitiva, in opposizione alle tesi di Bowlby, le esperienze del kibbutz hanno dimostrato che “i bambini allevati in gruppo, da educatori estranei alla famiglia, possono svilupparsi e di fatto si sviluppano molto meglio di quelli cresciuti dalle madri in case oppresse dalla miseria, e anche di alcuni della classe media” (Bettelheim 1977: 51). In particolare, almeno secondo Bettelheim, “il sistema educativo del kibbutz protegge il bambino dagli effetti negativi di una cattiva madre” (1977: 41). Potrebbe sembrare che questo sistema educativo privi i genitori dell’esclusivo affetto dei loro figli, ma così non è. Infatti, “se i genitori del kibbutz, rispetto alle altre società, ottengono meno calore e affetto da parte dei propri figli, ne ricevono di più da tutti gli altri bambini della comunità. In paragone, essi non hanno meno soddisfazioni, ma di più. Soltanto, la fonte di queste gioie non sono i propri figli, ma tutta la popolazione infantile” (Bettelheim 1977: 138).
Del resto, il legame con la famiglia non è abolito. “I bambini incontrano i propri parenti e fratelli nelle ore libere e passano i pomeriggi e la prima parte della serata con loro; al sabato e nei giorni di festa stanno per la maggior parte del tempo con i genitori...” (SARACENO 1975: 237). “L’estrema limitazione delle funzioni della famiglia nella sfera del mantenimento e della socializzazione dei bambini non ha condotto alla distruzione della solidarietà familiare. Paradossalmente, la riduzione degli obblighi ha rafforzato piuttosto che indebolito il rapporto genitori-figli e ha aumentato l’importanza dei legami emotivi tra loro” (SARACENO 1975: 241).
“Nel kibbuz il comportamento del bambino non può in alcun modo danneggiare la posizione dei genitori nella comunità. La questione del «cosa penserà la gente se mio figlio va male a scuola», causa di tanti conflitti nelle nostre famiglie, è difficile che si presenti nel kibbuz, dove una persona viene giudicata soltanto in base alla propria personale posizione di compagno e membro della collettività” (Bettelheim 1977: 151-2).
Tutto ciò può spiegare non solo l’elevata valorizzazione del capitale umano, ma anche la scarsa incidenza del disagio mentale all’interno dei k. (Bettelheim 1977: 182-90).
“Negli anni ’70 il kibbuz era considerato dagli economisti un modello da applicare anche nel mondo industriale per rendere partecipe ogni singolo membro dei risultati non solo del proprio ramo di lavoro ma della gestione dell’intera comunità” (DE BENEDETTI C.I. 2001: 213). Ancora nel 1986 i kibbutzim sono “una potenza economica, hanno in mano la metà della produzione agricola” (DE BENEDETTI 2001: 195). Non solo: “fino ad oggi il kibbuz viene considerato un simbolo e una garanzia di onestà” (DE BENEDETTI 2001: 197). Eppure c’è qualcosa che non va, almeno per De Benedetti. La causa principale dello scontento è la mancata remunerazione del merito, l’appiattimento totale: “chi lavora dieci ore al giorno sui campi, in fabbrica o coi bambini riceve lo stesso compenso degli scansafatiche o peggio ancora di quelli che per una ragione o per l’altra non lavorano affatto” (DE BENEDETTI 2001: 213). Così alcuni kibbutzim devono oggi dibattersi in difficoltà economiche, che hanno reso necessario un abbassamento del tenore di vita (DE BENEDETTI 2001: 237), oppure continuano a mantenere un tenore di vita superiore alle proprie possibilità a costo di indebitarsi. Nel 2000 molti giovani nati in kibbutz scelgono di vivere in città come Tel Aviv o New York (DE BENEDETTI 2001: 240). “Questo è il kibbuz: tutti uguali. Ma è giusto, è economico continuare così!?”, si chiede De Benedetti con evidente disappunto (DE BENEDETTI 2001: 125).

Se gli ebrei esultano per il loro “ritorno” nella Terra Promessa, dalla quale erano stati allontanati circa 19 secoli prima, gli arabi non possono tollerare quella che considerano un’invasione e, alla partenza degli inglesi, impugnano immediatamente le armi e, uniti in una Lega, iniziano l’invasione d’Israele. Scoppia così la prima guerra arabo-israeliana. Il conflitto prosegue fino al 1949 e si conclude con la vittoria degli ebrei che, grazie all’annessione della Galilea, della Giudea e del Negev, estendono il loro territorio a 20.700 Kmq e controllano la Palestina intera. Nel corso del conflitto, gli ebrei mettono in atto un’operazione di pulizia etnica, che conducono con metodicità: i soldati israeliani circondano da tre lati i villaggi palestinesi, lasciando che i loro abitanti fuggano dal quarto lato in cerca di asilo nei paesi confinanti; i recalcitranti vengono allontanati con la forza; quindi si procede alla distruzione dei villaggi in modo che degli arabi non rimanga più traccia (PAPPE 2005: 167). Alla fine della guerra, quasi tutti i palestinesi residenti nello Stato d’Israele, circa 750 mila, sono stati cacciati e costretti a rifugiarsi in tendopoli, in parte in territorio israeliano, poco distanti dalle loro terre e dalle loro case, in parte nei vicini paesi arabi (Libano, Siria, Giordania, Egitto), mentre i pochi rimasti, si sono rassegnati a vivere come cittadini di secondo ordine all’interno di una popolazione ebrea in continua crescita. I primi sognano il ritorno nella loro terra natia, i secondi una vita migliore, e tutti odiano gli ebrei con grande intensità. Da questo momento, i rapporti tra ebrei e palestinesi rimangono conflittuali e inconciliabili, e generano uno stato di guerra orientato all’eliminazione del nemico. Si genera così una delle principali di cause di turbamento della pace mondiale.
Gli ebrei possono contare su una netta superiorità militare, ma già cominciano a pensare alla bomba atomica ed eseguono prospezioni nel deserto del Negev, che portano alla scoperta di uranio (1948-9): essi devono essere in grado di imporsi anche di fronte a qualsiasi eventuale minaccia di aggressione che provenga dal mondo arabo nel suo complesso.
Intanto, il flusso immigratorio ebraico prosegue a ritmo serrato, favorito dalla cosiddetta “legge del ritorno” (1950), la quale riconosce ad ogni ebreo, di qualsiasi parte del mondo, il diritto di entrare in Israele e riceverne la cittadinanza. Dai vicini campi, i rifugiati palestinesi possono osservare le loro terre, che adesso sono passate agli ebrei, e, pieni di odio, alcuni di loro, i più audaci, iniziano a compiere incursioni armate negli insediamenti ebraici isolati, allo scopo di uccidere e rapinare, ma gli ebrei controbattono spietatamente colpo su colpo.
Nel 1956 Israele scatena una nuova offensiva (seconda guerra arabo-israeliana), che viene fermata dopo pochi giorni da un intervento dell’ONU. I palestinesi provano ad organizzarsi e fondano alcune istituzioni, tra le quali spiccano “Al-Fatah” (1957) e l’OLP o Organizzazione per la liberazione della Palestina (1964), che, dal 1967, passano entrambe sotto la leadership di Yasir Arafat. Intanto, intorno al 1966, con l’aiuto della Francia e il consenso degli USA, Israele costruisce, segretamente, la sua bomba atomica. È il primo paese di piccole dimensioni (20 mila kmq con 3 milioni di abitanti) a dotarsi di un arsenale nucleare, ed è pronto a usarlo nel caso sentisse la propria stessa esistenza minacciata (HUTCHINSON 2003: 129).
Nel 1967 scoppia la cosiddetta Guerra dei sei giorni, che consente agli ebrei di allargare ulteriormente i loro territori fino a 65.000 Kmq e, in pratica, di occupare le aree dove vive la maggioranza dei profughi palestinesi. L’occupazione israeliana si accompagna ad una sistematica violazione dei diritti umani e civili (PAPPE 2005: 250) e alla conseguente insofferenza della popolazione araba. Alla schiacciante superiorità militare degli ebrei, che, oltre all’atomica, dispongono di carri armati, elicotteri, aerei e missili, gli arabi, non potendo opporre altro che fucili e mitra, decidono di rispondere col terrorismo. Uomini-bomba cominciano allora a lasciarsi esplodere in luoghi affollati seminando strage, in modo tale che nessun ebreo possa sentirsi al sicuro in nessuna parte del paese e in qualsiasi momento. Agli israeliani, che rispondono con bombardamenti, i palestinesi replicano con attacchi suicidi. Per anni si va avanti così. Inutilmente le Nazioni Unite si esprimono per il ritiro israeliano dai territori occupati (Risoluzione 242 del 22.11.1967).
Nel 1973 gli Egiziani scatenano la quarta guerra arabo-israeliana, che si conclude con un nulla di fatto. Il malcontento della nuova generazione dei palestinesi, nati in Cisgiordania e nella striscia di Gaza sotto il dominio israeliano, è all’origine di una rivolta spontanea, detta Intifada (1987), che è subito repressa nel sangue dagli Israeliani: in sei anni 1.500 Arabi vengono uccisi in scontri a fuoco.
Nel 1988 l’OLP proclama ufficialmente l’istituzione di uno Stato palestinese, riconoscendo implicitamente la spartizione della Palestina elaborata dall’ONU nel 1947, ma gli ebrei non ci stanno. Intanto essi sono saliti a 3 milioni e seicentomila, e i rifugiati a oltre un milione e mezzo, mentre i contrasti non accennano a placarsi, anzi, con l’entrata in scena di “Hamas” e del fanatismo religioso, la lotta si radicalizza e sale in auge la figura del martire kamikaze, che si immola per guadagnare il paradiso e per il bene del suo popolo. Gli israeliani insistono nella loro politica e, ad ogni attacco suicida rispondono colpo su colpo, in modo duro e inflessibile.

12. I tedeschi

Prostrata dalla sconfitta, che le è costata ingenti perdite di cose e persone, indebitata, divisa in quattro aree d’occupazione (di fatto in due aree: a Est la Repubblica democratica tedesca o RDT, controllata dai sovietici, a Ovest la Repubblica federale tedesca o RFT, controllata dagli occidentali), la Germania del dopoguerra sente di essere un paese umiliato e depresso. Il processo di Norimberga (novembre 1945 – ottobre 1946) nei confronti dei gerarchi nazisti, che vengono condannati come unici responsabili della guerra, libera il popolo da ogni senso di colpa e rende possibile la sua ripresa morale, alla quale si aggiunge quella economica che, favorita dal piano Marshall (1948-52) e dalla politica del socialdemocratico Konrad Adenauer, primo cancelliere della RFT (1949-63), che si adopera con successo nell’integrazione del suo paese nell’Europa occidentale e nella NATO, restituendo alla RFT il ruolo di una delle maggiori potenze industriali del mondo. Sotto il suo cancelleriato, per evitare la fuga dei tedeschi della RDT verso ovest, attraverso la “frontiera aperta” di Berlino, i sovietici decidono di erigere un muro (1961), che non solo divide nettamente la città tedesca, ma che finisce anche per rappresentare il simbolo della divisione del mondo nelle due sfere d’influenza, capitalista e comunista.
L’opera di Adenauer è proseguita dal successore, Ludwig Erhard (1963-66), che, con l’appoggio degli Stati Uniti, insiste nella politica liberale e finisce per divenire il principale artefice del miracolo economico tedesco del dopoguerra. Con Kurt G. Kiesinger (1966-69) si apre una pagina nuova nella politica della RFT, che, pur rimanendo fedele all’alleanza atlantica, comincia a interpretare un ruolo più indipendente nel panorama internazionale. Willy Brandt (1969-74) apre a Est e stabilisce rapporti cordiali con i paesi comunisti, ma l’arresto di uno dei suoi più stretti collaboratori come spia della RDT lo costringe alle dimissioni (1974).
Sostenitore deciso dell’alleanza atlantica, Helmut Schmidt (1974-82) chiede l’installazione sul suolo tedesco delle armi nucleari americane. Sul piano interno, egli riesce a fronteggiare una difficile situazione economica ma, alla fine, è costretto a dimettersi a causa della crisi della sua coalizione. Gli succede Helmut Kohl (1982-98), che accentua la linea filoatlantica in funzione antisovietica e, dopo l’abbattimento del muro di Berlino (27.11.1989), si impegna con successo alla riunificazione delle due Germanie (1.7.1990), divenendo il primo presidente della Germania unita.

11. I paesi comunisti europei

Alla fine della seconda guerra mondiale, nei paesi dell’Est europeo (Albania, Polonia, Cecoslovacchia, Bulgaria, Romania) vengono proclamate delle Repubbliche comuniste, la cui politica si caratterizza per l’espropriazione dei latifondi, che vengono distribuiti ai contadini, l’abolizione dei privilegi alle chiese, una forte presenza dello Stato in tutti i settori produttivi del paese e la sudditanza sovietica.

10. Gli spagnoli

In Spagna il dopoguerra è dominato dalla figura di Francisco Franco, la cui politica è segnata dal ripristino della monarchia (1947), dalla stipula di un concordato con la Chiesa cattolica (1953) e dall’avvicinamento agli USA (1953). Pur nominando erede al trono Juan Carlos di Borbone (1969) e lasciando la propria carica di primo ministro (1973), Franco continua a dominare la scena politica fino alla morte (1975). Da questo momento inizia un processo di democratizzazione del paese, che culmina con la promulgazione della Costituzione (28.12.1978) e si accompagna ad una forte crescita del paese.

09. I francesi

Dopo la seconda guerra mondiale, per la prima volta nella sua storia, la Francia non è invitata dai Grandi alla conferenza di Yalta e non partecipa al riassetto dell’Europa. Il 13.10.1946 l’approvazione referendaria di una nuova Costituzione introduce il suffragio universale, esteso anche alle donne, e inaugura la Quarta Repubblica, che riesce a superare la difficile situazione economica. In politica estera, contrariamente a quanto hanno fatto Gran Bretagna e Germania, la Francia cerca di difendere coi denti l’impero coloniale e, a partire dal 1950, si impelaga nella guerra d’Indocina prima e in quella d’Algeria, poi. L’impossibilità di risolvere favorevolmente questi conflitti genera un periodo di instabilità politica, cui pone fine l’avvento al potere di De Gaulle, che fonda la Quinta Repubblica (1.6.1958) e riforma in senso centralistico le istituzioni, ricorrendo, nel corso del suo governo, a metodi plebiscitari. De Gaulle antepone ai problemi economici e sociali la politica estera, che è divisa fra un esasperato nazionalismo e le esigenze, in senso comunitario, legate all’Unione Europea.
Dopo il ritiro di De Gaulle, viene eletto alla presidenza della repubblica Georges Pompidou (1969-74), che dà alla politica francese un orientamento più europeo e punta a migliorare l’apparato industriale del paese. La sua politica, che tende a dare alla Francia un ruolo internazionale di primo piano, è proseguita da Valéry Giscard d’Estaing (1974-81), che, travolto da alcuni scandali, come quello dei diamanti regalatigli da Bokassa, non viene rieletto. Il quarto presidente della Quinta Repubblica è il socialista François Mitterand (1981-95), il cui governo è caratterizzato dall’impegno a dare maggiore autonomia alla Francia nella politica internazionale, dalla rottura fra socialisti e comunisti e dalla coabitazione con un governo di destra.

08. Gli inglesi

Alla fine della guerra (1945) la Gran Bretagna, esausta, deve assistere al rapido sgretolamento del suo impero coloniale e non svolge più il ruolo di prima potenza nel mondo. Essa si adatta alla nuova condizione, e lo fa nel rispetto della propria tradizione culturale, che è fedele ai principî liberal-democratici. Il piano di riforme attuato dai laburisti, che comprende un sistema sanitario nazionalizzato (1946) e un sistema di previdenza sociale (1948), cambia volto al paese e lo pone tra i più avanzati al mondo, anche se non riesce ad invertire il corso delirante dell’economia inglese. In politica estera, sebbene non sia più la prima della classe, la Gran Bretagna non rinuncia ad un ruolo di grande potenza e si dota di bomba atomica (1952) e di bomba H (1957). Nel 1979 sale al potere la signora Thatcher, con un programma che ha come scopo dichiarato lo smantellamento dell’apparato assistenziale e la revoca di ogni nazionalizzazione, al fine di consentire la crescita economica del paese. I fatti però dimostrano che la crescita economica non c’è, la disoccupazione rimale elevata e aumenta la povertà, così che la Thatcher decide di dimettersi (22.11.1990). La situazione sociale non cambia sotto il governo di John Major, che non viene riconfermato e, nel 1997, viene eletto il laburista Tony Blair.

07. Il caso Cile

Nel 1970 in Cile vanno al governo le forze di sinistra, che fanno capo al socialista Salvador Allende e che tentano di nazionalizzare importanti settori economici controllati da società multinazionali nordamericane. La risposta di Washington non si fa attendere e si traduce in un colpo di Stato promosso dalla Cia, che instaura una sanguinosa dittatura militare diretta dal generale Arturo Pinochet (1973).

06. Il caso Cambogia

Ex protettorato francese, dal 1947 la Cambogia è retta da un governo monarchico costituzionale e nel 1953 diviene indipendente. Nel 1970 gli americani appoggiano un colpo di Stato, che caccia il legittimo re Sihanuk, colpevole di simpatizzare per i vietcong. Cinque anni dopo Sihanuk può rientrare nel proprio paese, ma senza ricoprire alcuna carica, mentre il potere è, sempre più saldamente, nelle mani di un suo parente, il comunista Pol Pot, che ricorre a stermini di massa allo scopo di estirpare ogni opposizione al regime e ristabilire l’originaria purezza della società khmer. Raggiunto da masse di profughi, alla fine del 1978, il Vietnam invade la Cambogia e pone fine al genocidio, ma non allo stato di guerriglia.

05. I giapponesi

Il generale americano Mac Arthur che, alla fine della guerra, occupa il Giappone, è convinto che l’istituzione imperiale vada conservata, allo scopo di evitare il rischio di anarchia e l’avanzata del comunismo. Costringe, però, l’imperatore Hirohito a rinunciare alla sacralità del proprio ruolo (1.1.1946): l’imperatore può conservare il suo titolo, che però non è più ritenuto di origine divina, bensì derivato dalla sovranità popolare, e il suo status viene ridimensionato a mero simbolo di unità nazionale. Dopo questo gesto, viene promulgata la nuova Costituzione (3.11.1946), che instaura una monarchia parlamentare.
Il potere legislativo è attribuito a una Dieta, formata da due camere: la Camera Bassa o dei rappresentanti, costituita da 500 membri eletti a suffragio universale diretto ogni quattro anni e la Camera Alta o dei consiglieri, composta da 252 membri eletti per sei anni e rinnovabili al 50% ogni tre. Il potere esecutivo spetta al governo, presieduto dal primo ministro e responsabile di fronte alla Dieta. Il potere giudiziario è esercitato dalla Corte Suprema e dai Tribunali locali.
Fino al 1949 il Giappone è costretto a subire il regime d’occupazione e la sua potenza economica rischia di essere smantellata, ma, dopo la vittoria in Cina dei comunisti (1949), gli americani cambiano atteggiamento e lasciano il Giappone libero. Benché prostrato dalla sconfitta, il popolo nipponico trova ancora in sé le energie necessarie per una ripresa economica, che, in parte, è sostenuta direttamente dagli americani, i quali temono che un indebolimento del Giappone possa favorire l’espansione del comunismo, e, indirettamente, dagli stessi americani, nel corso della guerra di Corea (1950-53), ma anche dalle caratteristiche proprie dei giapponesi, dal loro indefettibile nazionalismo, dal senso della disciplina e del dovere, dall’accettazione dell’autorità e della gerarchia, dalla disponibilità a mettere in secondo piano i bisogni dell’individuo rispetto a quelli del gruppo e dello Stato.
Favorito anche dalla stabilità politica, dall’elevato livello tecnologico e dai bassi salari, seppure sprovvisto di materie prime, l’ex impero del Sol Levante cresce a tal punto da divenire, nell’arco di un ventennio, la terza potenza industriale del mondo, dopo USA e URSS, con una importante differenza: investe relativamente poco in armamenti. Sotto il governo Sato (1964 - 1972), il Giappone riprende una parte più attiva nella politica internazionale.
La crisi economica mondiale agli inizi degli anni Settanta ha conseguenze sul miracolo economico giapponese e si accompagna ad una serie di scandali che investono i governi nipponici Tanaka e Miki, rivelando una profonda crisi di moralità nei quadri politici del paese. Nel gennaio 1989, dopo una lunga agonia, scompare l'imperatore Hirohito e gli succede il figlio Akihito, che già svolgeva le funzioni di reggente. Nel 1989 esplode lo scandalo Recruit, che coinvolge tutti i componenti del governo, ex ministri, uomini politici e giornalisti.

04. I cinesi

Dopo la disfatta giapponese nella seconda guerra mondiale, il fallito accordo fra nazionalisti e comunisti apre uno stato di guerra civile che, in una prima fase, è favorevole a Chiang Kai-schek, il quale però si abbandona ad una politica personalistica, circondandosi di un sistema amministrativo altamente corrotto, e ciò finisce per favorire l’azione delle forze comuniste che, dopo aver costretto Chiang Kai-schek a ritirarsi nell’isola di Formosa, proclamano la Repubblica Popolare Cinese (1.10.1949) ed eleggono Mao Zedong (1949-76) primo presidente e Chou En-lai primo ministro.
Mao vuole realizzare una forma propria di comunismo, che rappresenti l’esito di un cambiamento rivoluzionario dei rapporti sociali, diversamente da quanto è avvenuto in Russia, dove il comunismo è stato imposto da un particolare ordinamento legislativo, economico e militare. La politica di Mao culmina nell’approvazione della Costituzione (20 settembre 1954), la quale fonda uno Stato democratico guidato dalla classe operaia e dai contadini. Le grandi proprietà terriere vengono confiscate e distribuite in piccoli appezzamenti ai contadini e, successivamente, in cooperative socialiste, costituite in media da 150 famiglie per 140 ettari di terreno. Sotto il governo di Mao la Cina compie importanti progressi economici e si inserisce fra le prime dieci potenze industriali del mondo. Nel 1964 la Cina entra a far parte del ristretto club dei paesi atomici, anche se continua a rimanere in ritardo sotto il profilo dei diritti democratici. Nel dopo-Mao questi progressi vengono confermati e consolidati, favoriti da una certa apertura all’economia di mercato, e fanno della Cina la seconda potenza economica mondiale.

03. I sovietici

Dopo Yalta l’URSS esce rafforzata nel prestigio e ingrandita, avendo acquisito, in Europa, i paesi baltici, la Cecoslovacchia, la penisola balcanica (eccetto la Grecia), parte della Polonia, della Germania, dell’Austria, e altro ancora, ed è presenta anche in Oriente, dove controlla la Corea del Nord e altri territori. Nel giugno del 1945 essa firma la Carta delle Nazioni Unite e diventa uno dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza. La sua influenza si estende alla Bulgaria, alla Romania, all’Ungheria, alla Iugoslavia (Tito, però, romperà ben presto con Stalin, già nel 1948) e, in parte, anche alla Francia e all’Italia, dove si sono affermati dei potenti Partiti comunisti. Il 23.9.1949, con l’annuncio dell’esplosione della prima bomba atomica sovietica, l’URSS colma il divario che la separa dagli USA e, almeno sul piano militare, può competere alla pari.
Stalin (1922-1953) non potrebbe essere più soddisfatto del bilancio del suo governo: ha trovato un paese grande e arretrato, lo lascia ancora più grande e al vertice della leadership mondiale. E tutto ciò avviene nonostante il rifiuto dell’Urss di rinunciare al capitale straniero, in particolare all’aiuto finanziario previsto dal piano Marshall, di cui invece beneficiano gli altri dell’Europa occidentale. Si può comprendere perciò perché Stalin sia fatto oggetto, mentre è in vita, di un vero e proprio culto della personalità, che gli verrà negato dal successore, Nikita Kruscev (1953-71), il quale denuncerà le violazioni dei diritti dell’uomo da parte del regime staliniano e avvierà un impietoso processo di “destalinizzazione”. Il governo di Kruscev si distingue per le straordinarie imprese spaziali, che rafforzano l’immagine dell’URSS e la confermano nel ruolo indiscusso di seconda potenza mondiale.

03.1. Le responsabilità di Stalin
Molti storici addossano su Stalin la responsabilità di avere tradito l’originario spirito leniniano, che era quello di diffondere il comunismo nel mondo. Perché Stalin si è comportato in modo da meritare questa critica? Per tutta una serie di ragioni, che vanno da una profonda sfiducia nell’uomo ad una conversione in senso nazionalistico della sua politica. A differenza di Mao, infatti, Stalin non credeva che le masse potessero attuare una rivoluzione dal basso e riteneva che il comunismo dovesse essere imposto dall’alto, anche con la forza, tanto da affermare: “Ognuno impone il proprio sistema sociale fino dove i suoi eserciti possono arrivare”. Coerentemente con questi principî egli abbandonò la lotta ideologica per abbracciare la competizione nazionalistica, che avrebbe dovuto portare l’URSS a divenire la prima potenza militare al mondo e il modello comunista russo ad imporsi su quello capitalista occidentale (CARR 1971; MEDVEDEV 1972). E sta qui, probabilmente, il principale limite della politica staliniana: nell’aver creduto che il comunismo potesse essere imposto al mondo con la forza e a beneficio della potenza sovietica.
Secondo Fernando Claudín, quello che è fallito storicamente non è il comunismo marxista, ma il folle tentativo operato da Stalin al fine di subordinare il movimento comunista internazionale agli interessi nazionalistici dell’URSS (CLAUDÍN 1974). Così facendo, Stalin ha dimostrato di non aver capito il comunismo stesso. La stessa farà, mezzo secolo dopo, Bush: anche lui crederà che la democrazia possa essere esportata con le armi, dimostrando di ignorare che la democrazia è una conquista delle coscienze, come del resto il comunismo.

Il travisamento dei principî comunisti trova conferma nella politica di Leonid Breznev (1964-82), il quale non esita inviare carri armati in Cecoslovacchia, per sopprimere il non gradito tentativo di democratizzazione di quel paese (“primavera di Praga”, 1968), e in Afghanistan (1979), a sostegno di un regime fedele a Mosca. Questa intromissione negli affari interni degli altri paesi non ha nulla a che vedere con il comunismo delle origini, che invece aveva mostrato il massimo rispetto per i diritti dei popoli. La politica di Breznev è tale da rendere comprensibile, all’esterno, la presa di distanza da parte della Cina, che vede nell’URSS una potenza imperialista, temibile quanto gli Stati Uniti, e, all’interno, l’elevazione di un coro di contestazione da parte di intellettuali, come Aleksandr Solgenitsyn e Andrej Sacharov, che denunciano le violazioni dei diritti dell’uomo da parte del regime sovietico.
Intanto il reddito nazionale in URSS non cessa di crescere, anche se con una tendenza al ribasso (si va, infatti, dall’11,3% del quinquennio 1951-55, al 9,2% nel 1956-60, al 6.5% nel 1960-65, al 7,8% nel 1966-70, al 5,8% del quinquennio 1971-75) e ciò depone a favore del modello comunista sovietico, che si conferma al mondo come unica valida alternativa al capitalismo americano. L’egemonia sovietica sull’Europa dell’Est viene accettata da tutti gli altri Stati europei (Conferenza di Helsinki, agosto 1975): è l’apogeo del modello politico comunista.
Da qui inizia un lento declino, che è preannunciato dal crollo della crescita economica che, nel quinquennio 1976-80, si attesta intorno al 2%, e dall’esito della guerra in Afghanistan (1979-89), dove si è sviluppata una guerriglia islamica finalizzata a rovesciare il governo comunista filosovietico, a sostegno del quale l’URSS invia contingenti militari, che però, alla fine, devono ritirarsi. Quando, nel 1985, sale potere Michail Gorbaciov, il paese non è ancora uscito da una crisi economica, che sembra strutturale al sistema. Gorbaciov tenta allora un radicale cambiamento di politica e apre all’Occidente e alla democrazia, così che molti dissidenti possono tranquillamente fare rientro nella loro patria. Il 16.12.1986 l’URSS annuncia che non riprenderà i test nucleari fino a quando non li avessero ripresi gli USA, e ciò prelude al Trattato di Washington (8.12.1987), dove, per la prima volta nella storia, ci si accorda sulla riduzione dell’arsenale atomico e si creano le condizioni, che decretano la fine della guerra fredda.
La nuova situazione è tale da consentire il ritiro militare dall’Afghanistan e l’abbattimento del muro di Berlino (1989), favorire i movimenti indipendentisti, che si vanno affermando in molti paesi dell’URSS e che conducono all’effettiva indipendenza della Lituania, dell’Estonia, della Lettonia, della Moldavia e dell’Ucraina (1990) e meritare a Gorbaciov il premio Nobel per la pace (1990).

02. Gli americani

Nel dopoguerra gli Stati Uniti detengono un’indiscussa superiorità in campo economico (dopo l’accordo raggiunto a Bretton Woods nel 1944, il dollaro è divenuto la valuta di riferimento della finanza internazionale) e dominano lo scenario mondiale. A ciò va aggiunto che, dopo il lancio delle testate nucleari su Hiroshima e Nagasaki, gli americani detengono il monopolio dell’arma atomica per un periodo di quattro anni (1945-49), durante il quale essi potrebbero sottomettere tutti i paesi del mondo, impedire loro di armarsi e trasformare il pianeta in un unico impero a stelle e strisce. In realtà Truman per un momento accarezza l’idea di lanciare l’atomica contro l’URSS (1946), ma poi ci ripensa, forse perché teme di offrire agli occhi dell’umanità un’immagine troppo negativa di sé, compromettendo, in tal modo, l’affermazione del proprio modello politico, che egli ritiene superiore a qualunque altro, ed anche i propri interessi economici.
Questo comportamento, che va certamente accreditato a suo onore, è, tuttavia, gravido di conseguenze per il futuro. Lasciare la libertà agli altri paesi significa, infatti, corsa agli armamenti, perché, com’è prevedibile, le altre grandi potenze cercherebbero di colmare il gap, a meno non ne siano impediti con la forza. È vero che gli USA provano a difendere il proprio monopolio, per esempio col “Piano Baruch” (14.6.1946), ma l’URSS non ci sta (19.6.1946) e il piano fallisce. Truman ci riprova col piano Marshall (1947), che prevede aiuti economici ai paesi danneggiati dalla guerra in cambio di una loro stretta subordinazione politica. Il suo scopo è quello di realizzare un mondo pacifico e senza confini, senza fame e povertà, libero e democratico, sia pure sotto l’egida americana, ma l’URSS, che non crede nel capitalismo e nella democrazia liberale e non gradisce l’iniziativa americana, rifiuta di aderire al piano e accelera sugli armamenti fino a quando, a partire dal 1949, il monopolio dell’arma atomica diviene duopolio. Intanto il piano Marshall prosegue e consente agli Usa di estendere e consolidare la loro influenza nel mondo che, in un primo tempo, è solo di natura economica, poi, a partire dal 1952, assume un carattere militare. Nei paesi in cui esercitano la loro influenza gli Usa favoriscono l’affermazione del capitalismo e si oppongono alla diffusione del comunismo.
Da questo momento, USA e URSS si dividono il mondo in due aree d’influenza, entrambe determinate a non concedere vantaggi all’avversario: gli USA vogliono essere primi a tutti i costi, l’URSS non si rassegna a restare seconda. È uno scontro fra due blocchi militari, certo, ma anche fra due ideologie: l’una, democratico-liberale, che è centrata sulla libera iniziativa dei singoli, sul libero mercato, sulla proprietà privata, sulla pluralità dei Partiti e su uno Stato poco presente; l’altra, democratico-popolare, che ruota attorno ad uno Stato forte e ad un Partito unico, i quali, oltre a detenere la proprietà dei mezzi di produzione, pianificano l’economia e controllano il mercato.
Dal 1950 al 1954 gli Stati Uniti sono teatro di una vera e propria crociata anticomunista, che prende il via dopo che il senatore J.R. MaCarthy ha deciso di denunciare la presenza di numerosi esponenti comunisti nell’amministrazione Truman. Sostenuto dalla destra conservatrice del partito repubblicano, il maccartismo, come viene chiamato questo movimento, si accompagna ad una serie di purghe politiche ad ogni livello ed in ogni campo, specie quello intellettuale, in un clima di caccia alle streghe, e favorisce l’ascesa al potere del repubblicano, generale Dwight Eisenhower (1952), il quale inaugura una politica più dura nei confronti dell’URSS. A livello interno, si abbandona lo spirito del New deal e ci si oppone ai movimenti operai, alle rivendicazioni sindacali e alla domanda d’uguaglianza che proviene dalla popolazione nera, che è costretta in condizioni di segregazione. Nello stesso tempo si approfondisce e si amplia la distanza fra i ceti benestanti, che concentrano nelle proprie mani enormi ricchezze, e ceti poveri, che vivono ammassati non lontano dai lussuosi grattacieli.
Nello stesso anno in cui infuria il maccartismo in America, avviene che il governo comunista della Corea del nord, appoggiato dalla Cina, tenta d’invadere la Corea del sud (25.5.1950). Gli americani rispondono inducendo la NATO ad ordinare la controffensiva. Si apre così la guerra di Corea, che si conclude con un ritorno allo status quo ante (armistizio del 27.7.1953), ma che però disvela la nuova politica imperialista degli americani, ormai decisi ad uscire dal loro prolungato isolamento e risoluti a contrastare l’avanzata del comunismo e a far trionfare la democrazia capitalistica nel mondo.
Un’altra minaccia comunista si ripresenta nel Vietnam, una regione che, dopo essersi liberata dal dominio coloniale francese (1954), a somiglianza della Corea, si trova divisa in una Repubblica popolare a Nord, a regime comunista, e in una monarchia filoccidentale a Sud. La prospettiva è quella di unificare il paese dopo libere elezioni, che si sarebbero tenute nel 1956. Per evitare che il più debole Sud venga assorbito dal più forte Nord, gli USA intervengono a suo sostegno, intenzionati a preservarne l’indipendenza, ma, così facendo, si attirano l’inimicizia della popolazione, che, favorevole all’unificazione, organizza la guerriglia con lo scopo di far cadere la monarchia e unificare il paese. In pratica si combattono due guerre: una per l’unità nazionale, l’altra fra due modelli ideologici che si contendono l’egemonia del pianeta: il modello liberale e quello comunista. Le ostilità iniziano nel 1957 e tendono ad ampliarsi negli anni seguenti, a tal punto che gli americani si vedono costretti ad aumentare continuamente le loro truppe, che passano da poche migliaia all’inizio del conflitto a 542 mila nel 1969. Nonostante le considerevoli forze impiegate, gli americani non riescono ad imporsi e, nello stesso tempo, devono fare i conti con una massiccia reazione dell’opinione pubblica, che è contraria alla guerra. Si giunge così al progressivo ritiro delle truppe americane e alla proclamazione della Repubblica Socialista del Vietnam (1976).
Anche a causa delle contraddizioni economiche in cui versa la società americana, ritornano al potere i democratici con J.F. Kennedy (1961-63), il cui programma prevede la lotta alla disoccupazione, il miglioramento dei servizi sociali, l’integrazione razziale e una politica a sostegno dei paesi sottosviluppati, per far loro dimenticare lo sfruttamento imperialistico che hanno subire in passato proprio ad opera degli americani. La “nuova frontiera” prospettata da Kennedy non giunge a compimento sia per la forte opposizione repubblicana, sia per la morte prematura del presidente, che rimane ucciso in un attentato (1963). Intanto, dopo aver conquistato il potere a Cuba (1959), Fidel Castro proclama la repubblica democratica socialista (1.12.1961), mettendosi in aperto contrasto con la politica americana e fornendo l’opportunità al presidente sovietico Nikita Kruscev di installare, in risposta al dispiegamento dei missili USA in Turchia, missili URSS sul suolo cubano, che però vengono ritirati di fronte alla decisa reazione di Kennedy (1962), che conduce il mondo sull’orlo della catastrofe nucleare. Il regime filocomunista cubano rimarrà comunque una spia nel fianco degli americani e un affronto indelebile nei confronti della loro democrazia. La politica di Kennedy si distingue anche per l’incremento dell’impegno americano in Vietnam, che il successore, L.B. Johnson (1963-69), porta ai massimi livelli, ma senza riscuotere successi significativi, anzi, alienandosi i favori dell’opinione pubblica americana.
Il disimpegno americano in Vietnam inizia con Richard Nixon (1969-74), la cui politica estera si distingue anche per gli accordi sulla limitazione degli armamenti strategici e per la distensione con l’URSS, mentre, sul piano interno, spicca la lotta alla criminalità e alla droga, oltre che il contenimento delle violenze razziali. Nixon è costretto alle dimissioni a seguito del coinvolgimento nel cosiddetto scandalo Watergate sulle intercettazioni telefoniche degli avversari politici (1974).
Grazie alla fama di uomo onesto, Gerald R. Ford (1974-77) è ritenuto l’uomo giusto per riparare la ferita morale inferta alle pubbliche istituzioni dalla condotta del predecessore, anche se la sua decisione di non processarlo getta ombre sulla sua correttezza e gli attira delle critiche. Ford insiste sulla politica di distensione già avviata da Nixon e conclude il ritiro americano dal Vietnam, ma si trova in difficoltà nell’affrontare la congiuntura economica della crisi petrolifera.
Il successore, Jimmy Carter (1977-81), che eredita una situazione critica sotto il profilo economico e segnata dalla perdita di credibilità degli Stati Uniti dopo l’ingloriosa guerra in Vietnam e il Watergate, fa il possibile per risollevare l’immagine del proprio paese, ma la sua politica non brilla né all’interno, né a livello internazionale, e il suo governo finisce per rappresentare un periodo alquanto opaco e deludente per l’America. Carter condanna l’invasione sovietica dell’Afghanistan, si impegna per la difesa dei diritti umani nel mondo e per la rinuncia da parte degli Stati Uniti all’uso della forza nelle questioni interne degli altri paesi, ma non è brillante nel sollevare le condizioni economiche del paese e rimedia una magra figura nel tentativo di liberare degli ostaggi americani in Iran (1980).
Le direttrici della politica di Ronald Reagan (1981-89) sono: appoggiare ogni iniziativa della libera impresa, ridurre l’intervento dello Stato negli affari privati dei cittadini, introdurre sgravi fiscali per le fasce più benestanti e importanti tagli alla spesa pubblica, aumentare le spese militari, assumere un atteggiamento anticomunista e interventista al fine di tenere alta la leadership degli Usa nel mondo. Il risultato di questa politica è, da una parte, il rafforzamento dello spirito liberista, la concentrazione delle ricchezze e il miglioramento dell’immagine degli Stati Uniti, dall’altra parte, l’aumento della disoccupazione, la riduzione dei servizi, l’ampliamento della fascia di povertà e un bilancio federale in rosso.
George Bush (1989-93) viene eletto in un momento di particolare crisi dell’assetto mondiale dovuto al disgregarsi del blocco dei paesi socialisti e all’emergere della minaccia islamica. Una brillante operazione militare contro Saddam Hussein, che ha occupato il vicino Kuwait, potrebbe creare le condizioni favorevoli alla sue rielezione e, nello stesso tempo, consentirebbe agli americani di controllare i ricchi giacimenti petroliferi di quella regione. La guerra contro l’Iraq (1991) viene fermata prima che truppe americane raggiungano Baghdad. Evidentemente Bush ritiene di aver raggiunto i suoi obiettivi e non intende deporre Saddam per non indebolire eccessivamente l’Iraq, la cui potenza deve poter far da contrappeso a quella dell’Iran (ZINN 2007: 413). Questa guerra vittoriosa porta a Bush un forte consenso popolare, ma la sua incapacità di far fronte alle difficoltà economiche del paese gli valgono la mancata rielezione.

01. Il quadro internazionale

All’indomani della seconda guerra mondiale, la paura dello scoppio di nuove guerre fa nascere l’esigenza di avere un organismo internazionale in grado di garantire la pace nel mondo, ed è con tale intento che viene istituita l’ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite), la quale dispone, oltre che di un apparato amministrativo, anche di un proprio esercito, che è formato da soldati (chiamati “caschi blu” dal colore dell’elmetto) messi a disposizione dagli Stati membri.

01.1. ONU
Col passare del tempo, l’ONU ha creato al suo interno altre organizzazioni con funzioni specifiche, tra le quali vanno ricordate: la FAO (Organizzazione per l’Alimentazione e l’Agricoltura), che si occupa dello sviluppo e della produzione alimentare e agricola nel mondo, oltre che di fornire aiuti alimentare ai paesi in difficoltà; l’UNESCO (Organizzazione per l’Educazione, la Scienza e la Cultura), che favorisce la collaborazione fra gli Stati attraverso l’educazione, la cultura e la scienza; l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), che si adopera per migliorare le condizioni di salute degli uomini nel mondo; l’UNICEF (Fondo Internazionale d’Emergenza per l’Infanzia), che aiuta i bambini in pericolo di fame o malattie.
Oggi aderiscono all’ONU quasi tutti gli Stati della terra, i cui rappresentanti costituiscono l’Assemblea generale, che ha potere decisionale nelle questioni ordinarie. Quando, invece, è in pericolo la pace interviene il Consiglio di sicurezza, formato dai rappresentanti di quindici Stati, dei quali cinque sono permanenti (Stati Uniti, Cina, Francia, Gran Bretagna e Russia), mentre gli altri dieci vengono eletti ogni due anni. Le decisioni vengono approvate col voto favorevole di almeno nove membri, a meno che uno dei membri permanenti, che hanno diritto di veto, non esprima un voto contrario.

01.2. La guerra fredda
La fine della guerra inaugura un nuovo periodo (1945-1991), che è caratterizzato dal declino dei governi dittatoriali. A contendersi il campo sono ora i due modelli economici antitetici del capitalismo americano e del comunismo sovietico. Tra le due superpotenze s’instaura un clima di guerra fredda, che è segnato “da una crescente instabilità e imprevedibilità, nella quale l’unica certezza è quella dei rapporti di forza” (DINUCCI 2003: 211). La divisione ostile fra i due mondi genera due istituzioni militari: la NATO (o Patto Atlantico) e il Patto di Varsavia. La prima è istituita nel 1949, allo scopo di scoraggiare ogni eventuale aggressione da parte dell’URSS, e comprende inizialmente Belgio, Francia, Lussemburgo Paesi Bassi, Regno Unito, Canada, Danimarca, Islanda, Italia, Norvegia, Portogallo e, infine, gli Stati Uniti, che, di fatto, svolgono un ruolo preminente. Successivamente entrano a farvi parte la Turchia (1952) e la Repubblica Federale Tedesca (1954). L’URSS risponde con l’istituzione del Patto di Varsavia (1955), che comprende otto paesi: URSS, Albania, Bulgaria, Ungheria, Polonia, RDT, Romania e Cecoslovacchia.

01.3. Il Terzo mondo
Intanto, tra il 1945 e il 1960, molte Colonie ottengono l’indipendenza, ma, se il colonialismo decade, rimane l’imperialismo, che si manifesta sotto altre forme. Le ex-colonie, infatti, devono misurarsi coi problemi dell’ignoranza, della disorganizzazione e della povertà, che rendono loro impossibile una competizione ad armi pari con i paesi più avanzati, tanto che si vedono costrette a chiedere aiuti economici alle grandi potenze, accettando di fatto una nuova forma di dipendenza, il cosiddetto “neocolonialismo”.
Nasce in tal modo il Terzo mondo, detto così per distinguerlo dal Primo mondo, che è quello formato da Europa occidentale, Nordamerica e Giappone, e comprende i paesi capitalisti, ricchi, che orbitano nella sfera d’influenza degli Stati Uniti, e dal Secondo Mondo, che è quello dei paesi dell’Est, ad economia socialista, sottoposti all’influenza dell’Unione Sovietica. Rispetto agli altri, i paesi del Terzo mondo sono arretrati, poveri e deboli, sono retti da governi autoritari e orbitano sotto l’influenza o degli Stati Uniti o dell’Unione Sovietica. Se i primi due Mondi si contendono la leadership del pianeta, il Terzo mondo rimane in condizioni di netta inferiorità.

01.4. La Terza rivoluzione industriale
A partire dagli anni Cinquanta, nei primi Due Mondi si sviluppa la cosiddetta Terza rivoluzione industriale, che è caratterizzata dall’introduzione dei sistemi d’automazione nelle fabbriche, dall’affermazione di aziende che operano a livello multinazionale, da una produzione e un consumo di massa su scala mondiale. L’utilizzo sempre più esteso di macchine e prodotti chimici nelle campagne si accompagna ad una maggiore disponibilità di prodotti alimentari che, insieme alla diffusione degli antibiotici e alle migliorate condizioni igieniche, contribuisce all’incremento della natalità e all’allungamento della durata media della vita. Intanto continua l’esodo dalle campagne, mentre aumenta l’occupazione nelle industrie e nel terziario, che fa registrare una crescente presenza femminile.
Grazie all’emancipazione economica, i singoli lavoratori possono ora abbandonare la famiglia d’origine e istituire una famiglia nucleare. Nello stesso tempo, grazie alla diffusione del riscaldamento domestico, degli elettrodomestici, del telefono, del televisore, dell’automobile e di altro ancora, si va affermando un nuovo stile di vita, che è improntato al consumismo. Se ciò è guardato con comprensibile compiacimento da parte di alcuni studiosi, che vi vedono un evidente segno di benessere e di progresso, che, auspicano, possa estendersi all’umanità intera (ROSTOW 1962; LANDES 1993), suscita perplessità in altri, che temono il depauperamento delle risorse naturali, l’inquinamento e il dissesto ecologico del pianeta, oltre a possibili squilibri economico-sociali (BARAN e SWEEZY 1978; HYMER 1977; PACCINO 1974).

01.5. Le armi di distruzione di massa nel mondo
L’esplosione della prima bomba atomica al plutonio sovietica (23.9.1949) segna la fine del monopolio nucleare americano e rappresenta la prima tappa di un cammino che verrà, ben presto, imitato da altri paesi, e a nulla servirà l’Appello di Stoccolma (19.3.1950) di porre fine a quella folle corsa. Il terzo paese a dotarsi della bomba atomica è la Gran Bretagna (26.10.1952), ma già gli Stati Uniti si portano avanti e fanno esplodere un ordigno, la cui potenza si misura in megaton (1 megaton = mille kiloton), la bomba H (31.10.1952), che però non è tale da conferire agli USA una superiorità determinante e, per di più, rafforza lo spirito d’emulazione da parte degli altri paesi, in particolare dell’URSS, che, dal 12.8.1953, dispone della stessa bomba. “In quel momento gli USA hanno 1005 armi nucleari, mentre l’URSS ne possiede 50” (DINUCCI 2003: 43). Ma adesso è l’URSS che si porta avanti, dotandosi del primo bombardiere intercontinentale (1954) e a nulla vale una dichiarazione pubblica da parte di alcuni scienziati, che richiamano l’attenzione sul pericolo atomico (1955): la corsa agli armamenti prosegue. È ancora l’URSS a realizzare il primo missile intercontinentale (1957), ed è subito imitata dagli USA (1958). Nel 1960 la Francia diventa la quarta potenza nucleare. Intanto gli americani hanno portato il loro arsenale nucleare a 20.434 armi, i sovietici a 1605, gli inglesi a 30. Il 1964 è l’anno della Cina e il 1966 quello di Israele, rispettivamente quinta e sesta potenza nucleare. Nello stesso anno (1966) gli americani dispongono di 31.700 armi nucleari, l’URSS di 7.089, gli inglesi 270, i francesi 36, i cinesi 20.
In un ventennio il duopolio atomico si è trasformato in un oligopolio, che tende ad allargarsi. Intanto gli americani cominciano a dispiegare le loro armi nucleari fuori dal proprio territorio, sia in Europa (paesi della NATO) che in Asia (Corea del Sud, Filippine, Giappone), mentre alcune sono trasportate a bordo di sottomarini e altre unità navali, e sono in grado, in tal modo, di colpire in brevissimo tempo qualsiasi obiettivo. Ma la consapevolezza di poter colpire è una magra consolazione per l’America, se si considera che essa non può evitare di essere colpita a sua volta. Adesso non esistono più potenze superiori in assoluto e prevale la paura.
Allo scopo di uscire da questo pantano USA e URSS avviano studi per realizzare sistemi di difesa antimissile (1967). A quel punto molti si accorgono che quella corsa, oltre che estremamente dispendiosa, è pericolosa e inutile e decidono di porvi uno stop (Trattato di non proliferazione nucleare firmato da 62 paesi, ma non da Cina, Francia, India, Pakistan e Israele, il 1.7.1968). A partire dal 1969 anche USA ed URSS iniziano ad accordarsi sulla limitazione degli armamenti, ma con scarso successo. Nel 1970 gli USA costruiscono i primi missili a ogiva multipla in grado di sfuggire alla difesa antimissile. “Nel 1971 nasce Greenpeace, l’organizzazione internazionale che fa dell’abolizione del nucleare uno dei cardini del suo programma e delle sue continue campagne” (DINUCCI 2003: 88). Nel 1972 vengono ratificati i negoziati USA-URSS, che vietano lo sviluppo dei sistemi missilistici anti-balistici (SALT I).
Nel 1974, mentre anche l’India entra nel novero delle potenze nucleari, USA e URSS realizzano i primi missili nucleari adattabili a rampe mobili e nuovi sottomarini in grado di lanciare missili a medio raggio. Nel 1975 anche il Sudafrica effettua il primo test nucleare anche se, unico paese al mondo, deciderà di smantellare il proprio armamento atomico (1990). Nel 1977 gli Stati Uniti costruiscono la bomba neutronica, che è caratterizzata da una più bassa distruttività e da una più elevata letalità rispetto all’atomica tradizionale. A partire dal 1978 l’URSS sorpassa gli USA in quanto a numero di armi nucleari. Nel 1983 è il Pakistan a fare esplodere la sua prima bomba atomica.
Adesso che il cosiddetto “club atomico” si è allargato, il poter disporre di un armamento nucleare non costituisce più un vantaggio qualitativo e determinante. Che fare allora? Le alternative più logiche sono due: la prima, la più auspicabile, è quella di distruggere gli arsenali nucleari perché il costo non giustifica i vantaggi; la seconda, la più temibile, è quella di potenziarlo al punto da consentire una superiorità assoluta ad un solo paese. Purtroppo, è questa seconda via ad essere prescelta dagli Usa. Nel 1983, infatti, viene ideata dall’amministrazione Reagan la cosiddetta Strategic Defense Initiative (SDI), più nota col nome di “Scudo spaziale”, che prevede la creazione di un complesso sistema di difesa, basato su raggi laser e missili antimissile, contro un eventuale attacco atomico. L’idea di uno scudo spaziale americano che, tra l’altro viola apertamente il trattato SALT 1, è giudicata negativamente dall’Unione Sovietica ed è anche una causa dell’interruzione dei negoziati START per la limitazione delle testate nucleari. Essa, inoltre, riceve molte critiche dagli stessi americani sia per la sua dubbia realizzabilità tecnica, sia per gli altissimi costi. Per tali ragioni il progetto viene, al momento, parzialmente accantonato. Se gli Stati Uniti fossero in grado di sferrare un attacco atomico in qualsiasi regione del pianeta e nel contempo di respingere eventuali attacchi contro di sé, si ripresenterebbe per essi l’opportunità, che già si era concretizzata nel periodo 1945-9, quella di soggiogare il pianeta intero.
Nel 1986 la situazione è la seguente: gli americani possiedono 23.254 armi nucleari, l’URSS 40.273, gli inglesi 300, i francesi 355, i cinesi 425.