mercoledì 16 settembre 2009

13. Israele

Dopo avere invano,in più occasioni (1945-7) cercato di contrastare l’immigrazione clandestina e di arrestare l’azione terroristica ebraica, Londra finisce per abbandonare la questione palestinese alla competenza dell’ONU (1947), che divide la Palestina in uno Stato ebraico di 14.000 Kmq per una popolazione di 963.000 abitanti, di cui 500.000 Ebrei, uno Stato arabo, di 11.500 Kmq per una popolazione di 814.000 abitanti, di cui 10.000 Ebrei, e uno Stato internazionale (Gerusalemme). La delibera dell’ONU è ritenuta ingiusta dagli arabi, che si vedono defraudati di una terra, che è loro da secoli. Gli ebrei, invece, accettano e, senza indugio, iniziano l’attuazione del cosiddetto “Piano D”, che persegue due obiettivi: il primo consiste nell’impadronirsi di tutte le installazioni civili e militari abbandonate dagli inglesi, il secondo nel ripulire il territorio loro assegnato dall’ONU del maggior numero possibile di arabi (PAPPE 2005: 159). Questi ultimi cercano di opporsi, ma la loro inferiorità militare è netta e, nel giro di un semestre, un terzo di loro è già stato cacciato. Inizia così il dramma dei profughi palestinesi.
Dopo sei mesi di “guerra civile”, in coincidenza con la cessazione del mandato inglese, nonostante la contrarietà del mondo arabo e grazie all’appoggio di alcuni paesi occidentali, Ben Gurion proclama la nascita dello Stato di Israele (14.5.1948), che viene subito riconosciuto dagli Stati Uniti. Al momento Israele conta circa 800 mila abitanti, il 7% dei quali vive all’interno di 149 kibbutz di dimensioni variabili, da un centinaio di persone a oltre due mila, che sono stati fondati in prevalenza da ebrei provenienti dall’URSS e imbevuti di idee socialiste. Caratteristica di queste comunità è il rifiuto della proprietà privata e un’amministrazione di tipo democratico-diretto, centrata sul valore dell’individuo più che della famiglia e del gruppo.

13.1. I kibbutzim in Palestina
La storia del kibbutz (che in ebraico significa «gruppo») inizia nel 1910, con i primi insediamenti ebraici in Palestina e si iscrive all’interno del movimento sionista, che vuole riportare il popolo ebraico nella sua patria storica. Nelle teste dei fondatori del k. c’è l’idea di costituire comunità autosufficienti e autarchiche, allo scopo di emancipare la donna e realizzare la parità fra i sessi (Bettelheim 1977: 35). Nel 1967 la popolazione complessiva dei kibbutzim ammonta a 87 mila. Nel 1991 i kibbutzim comprendono 270 comunità, ciascuna delle quali comprende in media 476 persone insediate in un’area di circa 550 ettari in media, per un totale di 129 mila membri.
All’interno del kibbutz non esiste proprietà privata, ma tutto appartiene a tutti, non circola denaro convenzionale e le transazioni economiche sono registrate elettronicamente. Il governo della comunità è di tipo democratico-partecipativo. Insomma, siamo di fronte a minuscole popolazioni di tipo tribale, dunque di tipo arcaico, inserito in un contesto fra i più civili e tecnologici del pianeta, il che fa del k. un’autentica novità sul piano sociale ed educativo, e i risultati sembrano finora incoraggianti. Basti pensare che, pur comprendendo il 2,5% della popolazione totale di Israele, i kibbutzim forniscono il 6% della produzione industriale e un terzo della produzione agricola (MARON 1994: 7-8).
13.1.1. Organizzazione sociale
Le ragioni di questa straordinaria e imprevedibile performance vanno ricercate nella particolare organizzazione familiare e sociale di queste comunità, dove la socializzazione e la cura del bambino non sono affidate in modo preponderante o esclusivo alla famiglia biologica, poiché vi contribuiscono in modo sostanziale i coetanei, i compagni di lavoro, i comitati e l’assemblea generale. In definitiva, i k. si sono assunta la maggior parte delle funzioni della famiglia e hanno avocato a sé la responsabilità della cura fisica e dell’allevamento dei bambini, riducendo in tal modo gli obblighi e i legami dei genitori. “Fondamentalmente i bambini appartengono alla comunità nel suo insieme” (SARACENO 1975: 238).
Nel k. i bambini vengono solitamente allattati dalla madre per i primi sei mesi, dopo di che vengono svezzati e affidati alla comunità, così che la madre è libera di riprendere il lavoro. “Questa situazione favorisce l’indipendenza nel bambino del kibbutz, dato che impara presto ad interagire con una pluralità di persone” (Bettelheim 1977: 122). Il k. investe una straordinaria quantità di risorse nell’educazione dei bambini, col risultato che i futuri cittadini si sviluppano “in condizioni molto più favorevoli della maggioranza dei nostri bambini del ceto medio, per non parlare di quelli disagiati” (Bettelheim 1977: 118). Economicamente ed emotivamente i figli dipendono meno dalla famiglia che dalla comunità e questo, secondo Bruno Bettelheim, si rivela vantaggioso per lo sviluppo psicofisico dei bambini e per il loro inserimento nella vita sociale. In effetti, il bambino nel k. non ha nulla da temere se i suoi genitori si separano, si ammalano, muoiono e via dicendo: egli sa che è la comunità a prendersi cura di lui, e questo lo rassicura.
In definitiva, in opposizione alle tesi di Bowlby, le esperienze del kibbutz hanno dimostrato che “i bambini allevati in gruppo, da educatori estranei alla famiglia, possono svilupparsi e di fatto si sviluppano molto meglio di quelli cresciuti dalle madri in case oppresse dalla miseria, e anche di alcuni della classe media” (Bettelheim 1977: 51). In particolare, almeno secondo Bettelheim, “il sistema educativo del kibbutz protegge il bambino dagli effetti negativi di una cattiva madre” (1977: 41). Potrebbe sembrare che questo sistema educativo privi i genitori dell’esclusivo affetto dei loro figli, ma così non è. Infatti, “se i genitori del kibbutz, rispetto alle altre società, ottengono meno calore e affetto da parte dei propri figli, ne ricevono di più da tutti gli altri bambini della comunità. In paragone, essi non hanno meno soddisfazioni, ma di più. Soltanto, la fonte di queste gioie non sono i propri figli, ma tutta la popolazione infantile” (Bettelheim 1977: 138).
Del resto, il legame con la famiglia non è abolito. “I bambini incontrano i propri parenti e fratelli nelle ore libere e passano i pomeriggi e la prima parte della serata con loro; al sabato e nei giorni di festa stanno per la maggior parte del tempo con i genitori...” (SARACENO 1975: 237). “L’estrema limitazione delle funzioni della famiglia nella sfera del mantenimento e della socializzazione dei bambini non ha condotto alla distruzione della solidarietà familiare. Paradossalmente, la riduzione degli obblighi ha rafforzato piuttosto che indebolito il rapporto genitori-figli e ha aumentato l’importanza dei legami emotivi tra loro” (SARACENO 1975: 241).
“Nel kibbuz il comportamento del bambino non può in alcun modo danneggiare la posizione dei genitori nella comunità. La questione del «cosa penserà la gente se mio figlio va male a scuola», causa di tanti conflitti nelle nostre famiglie, è difficile che si presenti nel kibbuz, dove una persona viene giudicata soltanto in base alla propria personale posizione di compagno e membro della collettività” (Bettelheim 1977: 151-2).
Tutto ciò può spiegare non solo l’elevata valorizzazione del capitale umano, ma anche la scarsa incidenza del disagio mentale all’interno dei k. (Bettelheim 1977: 182-90).
“Negli anni ’70 il kibbuz era considerato dagli economisti un modello da applicare anche nel mondo industriale per rendere partecipe ogni singolo membro dei risultati non solo del proprio ramo di lavoro ma della gestione dell’intera comunità” (DE BENEDETTI C.I. 2001: 213). Ancora nel 1986 i kibbutzim sono “una potenza economica, hanno in mano la metà della produzione agricola” (DE BENEDETTI 2001: 195). Non solo: “fino ad oggi il kibbuz viene considerato un simbolo e una garanzia di onestà” (DE BENEDETTI 2001: 197). Eppure c’è qualcosa che non va, almeno per De Benedetti. La causa principale dello scontento è la mancata remunerazione del merito, l’appiattimento totale: “chi lavora dieci ore al giorno sui campi, in fabbrica o coi bambini riceve lo stesso compenso degli scansafatiche o peggio ancora di quelli che per una ragione o per l’altra non lavorano affatto” (DE BENEDETTI 2001: 213). Così alcuni kibbutzim devono oggi dibattersi in difficoltà economiche, che hanno reso necessario un abbassamento del tenore di vita (DE BENEDETTI 2001: 237), oppure continuano a mantenere un tenore di vita superiore alle proprie possibilità a costo di indebitarsi. Nel 2000 molti giovani nati in kibbutz scelgono di vivere in città come Tel Aviv o New York (DE BENEDETTI 2001: 240). “Questo è il kibbuz: tutti uguali. Ma è giusto, è economico continuare così!?”, si chiede De Benedetti con evidente disappunto (DE BENEDETTI 2001: 125).

Se gli ebrei esultano per il loro “ritorno” nella Terra Promessa, dalla quale erano stati allontanati circa 19 secoli prima, gli arabi non possono tollerare quella che considerano un’invasione e, alla partenza degli inglesi, impugnano immediatamente le armi e, uniti in una Lega, iniziano l’invasione d’Israele. Scoppia così la prima guerra arabo-israeliana. Il conflitto prosegue fino al 1949 e si conclude con la vittoria degli ebrei che, grazie all’annessione della Galilea, della Giudea e del Negev, estendono il loro territorio a 20.700 Kmq e controllano la Palestina intera. Nel corso del conflitto, gli ebrei mettono in atto un’operazione di pulizia etnica, che conducono con metodicità: i soldati israeliani circondano da tre lati i villaggi palestinesi, lasciando che i loro abitanti fuggano dal quarto lato in cerca di asilo nei paesi confinanti; i recalcitranti vengono allontanati con la forza; quindi si procede alla distruzione dei villaggi in modo che degli arabi non rimanga più traccia (PAPPE 2005: 167). Alla fine della guerra, quasi tutti i palestinesi residenti nello Stato d’Israele, circa 750 mila, sono stati cacciati e costretti a rifugiarsi in tendopoli, in parte in territorio israeliano, poco distanti dalle loro terre e dalle loro case, in parte nei vicini paesi arabi (Libano, Siria, Giordania, Egitto), mentre i pochi rimasti, si sono rassegnati a vivere come cittadini di secondo ordine all’interno di una popolazione ebrea in continua crescita. I primi sognano il ritorno nella loro terra natia, i secondi una vita migliore, e tutti odiano gli ebrei con grande intensità. Da questo momento, i rapporti tra ebrei e palestinesi rimangono conflittuali e inconciliabili, e generano uno stato di guerra orientato all’eliminazione del nemico. Si genera così una delle principali di cause di turbamento della pace mondiale.
Gli ebrei possono contare su una netta superiorità militare, ma già cominciano a pensare alla bomba atomica ed eseguono prospezioni nel deserto del Negev, che portano alla scoperta di uranio (1948-9): essi devono essere in grado di imporsi anche di fronte a qualsiasi eventuale minaccia di aggressione che provenga dal mondo arabo nel suo complesso.
Intanto, il flusso immigratorio ebraico prosegue a ritmo serrato, favorito dalla cosiddetta “legge del ritorno” (1950), la quale riconosce ad ogni ebreo, di qualsiasi parte del mondo, il diritto di entrare in Israele e riceverne la cittadinanza. Dai vicini campi, i rifugiati palestinesi possono osservare le loro terre, che adesso sono passate agli ebrei, e, pieni di odio, alcuni di loro, i più audaci, iniziano a compiere incursioni armate negli insediamenti ebraici isolati, allo scopo di uccidere e rapinare, ma gli ebrei controbattono spietatamente colpo su colpo.
Nel 1956 Israele scatena una nuova offensiva (seconda guerra arabo-israeliana), che viene fermata dopo pochi giorni da un intervento dell’ONU. I palestinesi provano ad organizzarsi e fondano alcune istituzioni, tra le quali spiccano “Al-Fatah” (1957) e l’OLP o Organizzazione per la liberazione della Palestina (1964), che, dal 1967, passano entrambe sotto la leadership di Yasir Arafat. Intanto, intorno al 1966, con l’aiuto della Francia e il consenso degli USA, Israele costruisce, segretamente, la sua bomba atomica. È il primo paese di piccole dimensioni (20 mila kmq con 3 milioni di abitanti) a dotarsi di un arsenale nucleare, ed è pronto a usarlo nel caso sentisse la propria stessa esistenza minacciata (HUTCHINSON 2003: 129).
Nel 1967 scoppia la cosiddetta Guerra dei sei giorni, che consente agli ebrei di allargare ulteriormente i loro territori fino a 65.000 Kmq e, in pratica, di occupare le aree dove vive la maggioranza dei profughi palestinesi. L’occupazione israeliana si accompagna ad una sistematica violazione dei diritti umani e civili (PAPPE 2005: 250) e alla conseguente insofferenza della popolazione araba. Alla schiacciante superiorità militare degli ebrei, che, oltre all’atomica, dispongono di carri armati, elicotteri, aerei e missili, gli arabi, non potendo opporre altro che fucili e mitra, decidono di rispondere col terrorismo. Uomini-bomba cominciano allora a lasciarsi esplodere in luoghi affollati seminando strage, in modo tale che nessun ebreo possa sentirsi al sicuro in nessuna parte del paese e in qualsiasi momento. Agli israeliani, che rispondono con bombardamenti, i palestinesi replicano con attacchi suicidi. Per anni si va avanti così. Inutilmente le Nazioni Unite si esprimono per il ritiro israeliano dai territori occupati (Risoluzione 242 del 22.11.1967).
Nel 1973 gli Egiziani scatenano la quarta guerra arabo-israeliana, che si conclude con un nulla di fatto. Il malcontento della nuova generazione dei palestinesi, nati in Cisgiordania e nella striscia di Gaza sotto il dominio israeliano, è all’origine di una rivolta spontanea, detta Intifada (1987), che è subito repressa nel sangue dagli Israeliani: in sei anni 1.500 Arabi vengono uccisi in scontri a fuoco.
Nel 1988 l’OLP proclama ufficialmente l’istituzione di uno Stato palestinese, riconoscendo implicitamente la spartizione della Palestina elaborata dall’ONU nel 1947, ma gli ebrei non ci stanno. Intanto essi sono saliti a 3 milioni e seicentomila, e i rifugiati a oltre un milione e mezzo, mentre i contrasti non accennano a placarsi, anzi, con l’entrata in scena di “Hamas” e del fanatismo religioso, la lotta si radicalizza e sale in auge la figura del martire kamikaze, che si immola per guadagnare il paradiso e per il bene del suo popolo. Gli israeliani insistono nella loro politica e, ad ogni attacco suicida rispondono colpo su colpo, in modo duro e inflessibile.

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