mercoledì 16 settembre 2009

03. I sovietici

Dopo Yalta l’URSS esce rafforzata nel prestigio e ingrandita, avendo acquisito, in Europa, i paesi baltici, la Cecoslovacchia, la penisola balcanica (eccetto la Grecia), parte della Polonia, della Germania, dell’Austria, e altro ancora, ed è presenta anche in Oriente, dove controlla la Corea del Nord e altri territori. Nel giugno del 1945 essa firma la Carta delle Nazioni Unite e diventa uno dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza. La sua influenza si estende alla Bulgaria, alla Romania, all’Ungheria, alla Iugoslavia (Tito, però, romperà ben presto con Stalin, già nel 1948) e, in parte, anche alla Francia e all’Italia, dove si sono affermati dei potenti Partiti comunisti. Il 23.9.1949, con l’annuncio dell’esplosione della prima bomba atomica sovietica, l’URSS colma il divario che la separa dagli USA e, almeno sul piano militare, può competere alla pari.
Stalin (1922-1953) non potrebbe essere più soddisfatto del bilancio del suo governo: ha trovato un paese grande e arretrato, lo lascia ancora più grande e al vertice della leadership mondiale. E tutto ciò avviene nonostante il rifiuto dell’Urss di rinunciare al capitale straniero, in particolare all’aiuto finanziario previsto dal piano Marshall, di cui invece beneficiano gli altri dell’Europa occidentale. Si può comprendere perciò perché Stalin sia fatto oggetto, mentre è in vita, di un vero e proprio culto della personalità, che gli verrà negato dal successore, Nikita Kruscev (1953-71), il quale denuncerà le violazioni dei diritti dell’uomo da parte del regime staliniano e avvierà un impietoso processo di “destalinizzazione”. Il governo di Kruscev si distingue per le straordinarie imprese spaziali, che rafforzano l’immagine dell’URSS e la confermano nel ruolo indiscusso di seconda potenza mondiale.

03.1. Le responsabilità di Stalin
Molti storici addossano su Stalin la responsabilità di avere tradito l’originario spirito leniniano, che era quello di diffondere il comunismo nel mondo. Perché Stalin si è comportato in modo da meritare questa critica? Per tutta una serie di ragioni, che vanno da una profonda sfiducia nell’uomo ad una conversione in senso nazionalistico della sua politica. A differenza di Mao, infatti, Stalin non credeva che le masse potessero attuare una rivoluzione dal basso e riteneva che il comunismo dovesse essere imposto dall’alto, anche con la forza, tanto da affermare: “Ognuno impone il proprio sistema sociale fino dove i suoi eserciti possono arrivare”. Coerentemente con questi principî egli abbandonò la lotta ideologica per abbracciare la competizione nazionalistica, che avrebbe dovuto portare l’URSS a divenire la prima potenza militare al mondo e il modello comunista russo ad imporsi su quello capitalista occidentale (CARR 1971; MEDVEDEV 1972). E sta qui, probabilmente, il principale limite della politica staliniana: nell’aver creduto che il comunismo potesse essere imposto al mondo con la forza e a beneficio della potenza sovietica.
Secondo Fernando Claudín, quello che è fallito storicamente non è il comunismo marxista, ma il folle tentativo operato da Stalin al fine di subordinare il movimento comunista internazionale agli interessi nazionalistici dell’URSS (CLAUDÍN 1974). Così facendo, Stalin ha dimostrato di non aver capito il comunismo stesso. La stessa farà, mezzo secolo dopo, Bush: anche lui crederà che la democrazia possa essere esportata con le armi, dimostrando di ignorare che la democrazia è una conquista delle coscienze, come del resto il comunismo.

Il travisamento dei principî comunisti trova conferma nella politica di Leonid Breznev (1964-82), il quale non esita inviare carri armati in Cecoslovacchia, per sopprimere il non gradito tentativo di democratizzazione di quel paese (“primavera di Praga”, 1968), e in Afghanistan (1979), a sostegno di un regime fedele a Mosca. Questa intromissione negli affari interni degli altri paesi non ha nulla a che vedere con il comunismo delle origini, che invece aveva mostrato il massimo rispetto per i diritti dei popoli. La politica di Breznev è tale da rendere comprensibile, all’esterno, la presa di distanza da parte della Cina, che vede nell’URSS una potenza imperialista, temibile quanto gli Stati Uniti, e, all’interno, l’elevazione di un coro di contestazione da parte di intellettuali, come Aleksandr Solgenitsyn e Andrej Sacharov, che denunciano le violazioni dei diritti dell’uomo da parte del regime sovietico.
Intanto il reddito nazionale in URSS non cessa di crescere, anche se con una tendenza al ribasso (si va, infatti, dall’11,3% del quinquennio 1951-55, al 9,2% nel 1956-60, al 6.5% nel 1960-65, al 7,8% nel 1966-70, al 5,8% del quinquennio 1971-75) e ciò depone a favore del modello comunista sovietico, che si conferma al mondo come unica valida alternativa al capitalismo americano. L’egemonia sovietica sull’Europa dell’Est viene accettata da tutti gli altri Stati europei (Conferenza di Helsinki, agosto 1975): è l’apogeo del modello politico comunista.
Da qui inizia un lento declino, che è preannunciato dal crollo della crescita economica che, nel quinquennio 1976-80, si attesta intorno al 2%, e dall’esito della guerra in Afghanistan (1979-89), dove si è sviluppata una guerriglia islamica finalizzata a rovesciare il governo comunista filosovietico, a sostegno del quale l’URSS invia contingenti militari, che però, alla fine, devono ritirarsi. Quando, nel 1985, sale potere Michail Gorbaciov, il paese non è ancora uscito da una crisi economica, che sembra strutturale al sistema. Gorbaciov tenta allora un radicale cambiamento di politica e apre all’Occidente e alla democrazia, così che molti dissidenti possono tranquillamente fare rientro nella loro patria. Il 16.12.1986 l’URSS annuncia che non riprenderà i test nucleari fino a quando non li avessero ripresi gli USA, e ciò prelude al Trattato di Washington (8.12.1987), dove, per la prima volta nella storia, ci si accorda sulla riduzione dell’arsenale atomico e si creano le condizioni, che decretano la fine della guerra fredda.
La nuova situazione è tale da consentire il ritiro militare dall’Afghanistan e l’abbattimento del muro di Berlino (1989), favorire i movimenti indipendentisti, che si vanno affermando in molti paesi dell’URSS e che conducono all’effettiva indipendenza della Lituania, dell’Estonia, della Lettonia, della Moldavia e dell’Ucraina (1990) e meritare a Gorbaciov il premio Nobel per la pace (1990).

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