mercoledì 16 settembre 2009

02. Gli americani

Nel dopoguerra gli Stati Uniti detengono un’indiscussa superiorità in campo economico (dopo l’accordo raggiunto a Bretton Woods nel 1944, il dollaro è divenuto la valuta di riferimento della finanza internazionale) e dominano lo scenario mondiale. A ciò va aggiunto che, dopo il lancio delle testate nucleari su Hiroshima e Nagasaki, gli americani detengono il monopolio dell’arma atomica per un periodo di quattro anni (1945-49), durante il quale essi potrebbero sottomettere tutti i paesi del mondo, impedire loro di armarsi e trasformare il pianeta in un unico impero a stelle e strisce. In realtà Truman per un momento accarezza l’idea di lanciare l’atomica contro l’URSS (1946), ma poi ci ripensa, forse perché teme di offrire agli occhi dell’umanità un’immagine troppo negativa di sé, compromettendo, in tal modo, l’affermazione del proprio modello politico, che egli ritiene superiore a qualunque altro, ed anche i propri interessi economici.
Questo comportamento, che va certamente accreditato a suo onore, è, tuttavia, gravido di conseguenze per il futuro. Lasciare la libertà agli altri paesi significa, infatti, corsa agli armamenti, perché, com’è prevedibile, le altre grandi potenze cercherebbero di colmare il gap, a meno non ne siano impediti con la forza. È vero che gli USA provano a difendere il proprio monopolio, per esempio col “Piano Baruch” (14.6.1946), ma l’URSS non ci sta (19.6.1946) e il piano fallisce. Truman ci riprova col piano Marshall (1947), che prevede aiuti economici ai paesi danneggiati dalla guerra in cambio di una loro stretta subordinazione politica. Il suo scopo è quello di realizzare un mondo pacifico e senza confini, senza fame e povertà, libero e democratico, sia pure sotto l’egida americana, ma l’URSS, che non crede nel capitalismo e nella democrazia liberale e non gradisce l’iniziativa americana, rifiuta di aderire al piano e accelera sugli armamenti fino a quando, a partire dal 1949, il monopolio dell’arma atomica diviene duopolio. Intanto il piano Marshall prosegue e consente agli Usa di estendere e consolidare la loro influenza nel mondo che, in un primo tempo, è solo di natura economica, poi, a partire dal 1952, assume un carattere militare. Nei paesi in cui esercitano la loro influenza gli Usa favoriscono l’affermazione del capitalismo e si oppongono alla diffusione del comunismo.
Da questo momento, USA e URSS si dividono il mondo in due aree d’influenza, entrambe determinate a non concedere vantaggi all’avversario: gli USA vogliono essere primi a tutti i costi, l’URSS non si rassegna a restare seconda. È uno scontro fra due blocchi militari, certo, ma anche fra due ideologie: l’una, democratico-liberale, che è centrata sulla libera iniziativa dei singoli, sul libero mercato, sulla proprietà privata, sulla pluralità dei Partiti e su uno Stato poco presente; l’altra, democratico-popolare, che ruota attorno ad uno Stato forte e ad un Partito unico, i quali, oltre a detenere la proprietà dei mezzi di produzione, pianificano l’economia e controllano il mercato.
Dal 1950 al 1954 gli Stati Uniti sono teatro di una vera e propria crociata anticomunista, che prende il via dopo che il senatore J.R. MaCarthy ha deciso di denunciare la presenza di numerosi esponenti comunisti nell’amministrazione Truman. Sostenuto dalla destra conservatrice del partito repubblicano, il maccartismo, come viene chiamato questo movimento, si accompagna ad una serie di purghe politiche ad ogni livello ed in ogni campo, specie quello intellettuale, in un clima di caccia alle streghe, e favorisce l’ascesa al potere del repubblicano, generale Dwight Eisenhower (1952), il quale inaugura una politica più dura nei confronti dell’URSS. A livello interno, si abbandona lo spirito del New deal e ci si oppone ai movimenti operai, alle rivendicazioni sindacali e alla domanda d’uguaglianza che proviene dalla popolazione nera, che è costretta in condizioni di segregazione. Nello stesso tempo si approfondisce e si amplia la distanza fra i ceti benestanti, che concentrano nelle proprie mani enormi ricchezze, e ceti poveri, che vivono ammassati non lontano dai lussuosi grattacieli.
Nello stesso anno in cui infuria il maccartismo in America, avviene che il governo comunista della Corea del nord, appoggiato dalla Cina, tenta d’invadere la Corea del sud (25.5.1950). Gli americani rispondono inducendo la NATO ad ordinare la controffensiva. Si apre così la guerra di Corea, che si conclude con un ritorno allo status quo ante (armistizio del 27.7.1953), ma che però disvela la nuova politica imperialista degli americani, ormai decisi ad uscire dal loro prolungato isolamento e risoluti a contrastare l’avanzata del comunismo e a far trionfare la democrazia capitalistica nel mondo.
Un’altra minaccia comunista si ripresenta nel Vietnam, una regione che, dopo essersi liberata dal dominio coloniale francese (1954), a somiglianza della Corea, si trova divisa in una Repubblica popolare a Nord, a regime comunista, e in una monarchia filoccidentale a Sud. La prospettiva è quella di unificare il paese dopo libere elezioni, che si sarebbero tenute nel 1956. Per evitare che il più debole Sud venga assorbito dal più forte Nord, gli USA intervengono a suo sostegno, intenzionati a preservarne l’indipendenza, ma, così facendo, si attirano l’inimicizia della popolazione, che, favorevole all’unificazione, organizza la guerriglia con lo scopo di far cadere la monarchia e unificare il paese. In pratica si combattono due guerre: una per l’unità nazionale, l’altra fra due modelli ideologici che si contendono l’egemonia del pianeta: il modello liberale e quello comunista. Le ostilità iniziano nel 1957 e tendono ad ampliarsi negli anni seguenti, a tal punto che gli americani si vedono costretti ad aumentare continuamente le loro truppe, che passano da poche migliaia all’inizio del conflitto a 542 mila nel 1969. Nonostante le considerevoli forze impiegate, gli americani non riescono ad imporsi e, nello stesso tempo, devono fare i conti con una massiccia reazione dell’opinione pubblica, che è contraria alla guerra. Si giunge così al progressivo ritiro delle truppe americane e alla proclamazione della Repubblica Socialista del Vietnam (1976).
Anche a causa delle contraddizioni economiche in cui versa la società americana, ritornano al potere i democratici con J.F. Kennedy (1961-63), il cui programma prevede la lotta alla disoccupazione, il miglioramento dei servizi sociali, l’integrazione razziale e una politica a sostegno dei paesi sottosviluppati, per far loro dimenticare lo sfruttamento imperialistico che hanno subire in passato proprio ad opera degli americani. La “nuova frontiera” prospettata da Kennedy non giunge a compimento sia per la forte opposizione repubblicana, sia per la morte prematura del presidente, che rimane ucciso in un attentato (1963). Intanto, dopo aver conquistato il potere a Cuba (1959), Fidel Castro proclama la repubblica democratica socialista (1.12.1961), mettendosi in aperto contrasto con la politica americana e fornendo l’opportunità al presidente sovietico Nikita Kruscev di installare, in risposta al dispiegamento dei missili USA in Turchia, missili URSS sul suolo cubano, che però vengono ritirati di fronte alla decisa reazione di Kennedy (1962), che conduce il mondo sull’orlo della catastrofe nucleare. Il regime filocomunista cubano rimarrà comunque una spia nel fianco degli americani e un affronto indelebile nei confronti della loro democrazia. La politica di Kennedy si distingue anche per l’incremento dell’impegno americano in Vietnam, che il successore, L.B. Johnson (1963-69), porta ai massimi livelli, ma senza riscuotere successi significativi, anzi, alienandosi i favori dell’opinione pubblica americana.
Il disimpegno americano in Vietnam inizia con Richard Nixon (1969-74), la cui politica estera si distingue anche per gli accordi sulla limitazione degli armamenti strategici e per la distensione con l’URSS, mentre, sul piano interno, spicca la lotta alla criminalità e alla droga, oltre che il contenimento delle violenze razziali. Nixon è costretto alle dimissioni a seguito del coinvolgimento nel cosiddetto scandalo Watergate sulle intercettazioni telefoniche degli avversari politici (1974).
Grazie alla fama di uomo onesto, Gerald R. Ford (1974-77) è ritenuto l’uomo giusto per riparare la ferita morale inferta alle pubbliche istituzioni dalla condotta del predecessore, anche se la sua decisione di non processarlo getta ombre sulla sua correttezza e gli attira delle critiche. Ford insiste sulla politica di distensione già avviata da Nixon e conclude il ritiro americano dal Vietnam, ma si trova in difficoltà nell’affrontare la congiuntura economica della crisi petrolifera.
Il successore, Jimmy Carter (1977-81), che eredita una situazione critica sotto il profilo economico e segnata dalla perdita di credibilità degli Stati Uniti dopo l’ingloriosa guerra in Vietnam e il Watergate, fa il possibile per risollevare l’immagine del proprio paese, ma la sua politica non brilla né all’interno, né a livello internazionale, e il suo governo finisce per rappresentare un periodo alquanto opaco e deludente per l’America. Carter condanna l’invasione sovietica dell’Afghanistan, si impegna per la difesa dei diritti umani nel mondo e per la rinuncia da parte degli Stati Uniti all’uso della forza nelle questioni interne degli altri paesi, ma non è brillante nel sollevare le condizioni economiche del paese e rimedia una magra figura nel tentativo di liberare degli ostaggi americani in Iran (1980).
Le direttrici della politica di Ronald Reagan (1981-89) sono: appoggiare ogni iniziativa della libera impresa, ridurre l’intervento dello Stato negli affari privati dei cittadini, introdurre sgravi fiscali per le fasce più benestanti e importanti tagli alla spesa pubblica, aumentare le spese militari, assumere un atteggiamento anticomunista e interventista al fine di tenere alta la leadership degli Usa nel mondo. Il risultato di questa politica è, da una parte, il rafforzamento dello spirito liberista, la concentrazione delle ricchezze e il miglioramento dell’immagine degli Stati Uniti, dall’altra parte, l’aumento della disoccupazione, la riduzione dei servizi, l’ampliamento della fascia di povertà e un bilancio federale in rosso.
George Bush (1989-93) viene eletto in un momento di particolare crisi dell’assetto mondiale dovuto al disgregarsi del blocco dei paesi socialisti e all’emergere della minaccia islamica. Una brillante operazione militare contro Saddam Hussein, che ha occupato il vicino Kuwait, potrebbe creare le condizioni favorevoli alla sue rielezione e, nello stesso tempo, consentirebbe agli americani di controllare i ricchi giacimenti petroliferi di quella regione. La guerra contro l’Iraq (1991) viene fermata prima che truppe americane raggiungano Baghdad. Evidentemente Bush ritiene di aver raggiunto i suoi obiettivi e non intende deporre Saddam per non indebolire eccessivamente l’Iraq, la cui potenza deve poter far da contrappeso a quella dell’Iran (ZINN 2007: 413). Questa guerra vittoriosa porta a Bush un forte consenso popolare, ma la sua incapacità di far fronte alle difficoltà economiche del paese gli valgono la mancata rielezione.

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